«Un giorno saremo tutti spinti verso la morte, conoscendo poco o nulla, e quel poco, e quel nulla, conoscendolo male». Questo monito dovrebbe tenerci svegli, poiché, per quanto ci sforziamo, la verità, se esiste, continuerà a sfuggirci. E non parlo solo di quella giudiziaria.

Ricorre quest’anno il trentennale di Mani pulite e molti conti ancora non tornano. Per gli amanti delle date tutto ha inizio il 17 febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, esponente del partito socialista milanese e presidente del Pio albergo trivulzio, che davanti all’irruzione dei carabinieri si rifugia in bagno cercando di far sparire nel water i soldi della tangente appena incassata, quasi a ricordarci come le vicende nostrane siano spesso connotate da risvolti tragicomici.

Ovviamente quell’arresto non è che la conseguenza di qualcosa che si avverte nell’aria, lo sbocco d’indagini avviate da tempo, contro le quali a un certo punto, è il 23 luglio del 1993, finisce per impattare la ormai appannata cometa di Raul Gardini, soprannominato il Corsaro, o il Contadino, figura di spicco dell’imprenditoria non solo italiana di quegli anni, per lungo tempo a capo di un gruppo industriale secondo, nel nostro paese, solo a quello degli Agnelli e con interessi in svariati settori e in diversi paesi: dalla Russia alle Americhe, dalla chimica all’agroalimentare.

Come sappiamo, l’inchiesta giudiziaria avviata dal pool di magistrati milanesi, trainata dall’esuberanza del pm Antonio Di Pietro, sconvolge dalle fondamenta il mondo della politica e dell’imprenditoria rivelando il sistema di corruzione dilagante (intreccio tra politica e mondo degli affari) e determinando lo sfascio dei partiti tradizionali e la fine della cosiddetta prima Repubblica.

Non è il genere di anniversari che vorremmo celebrare, ma ricorrenze come questa se non altro servono a tenere viva la memoria e alta la guardia. E non c’è dubbio che, nell’ambito di Mani pulite, l’inchiesta sfociata nel processo Enimont è stata senz’altro il filone principale.

Un processo vertente su una presunta maxitangente (150 miliardi di lire) che sarebbe stata pagata da alcuni degli imputati (o da Gardini stesso, che però all’epoca non risultava più alla guida del gruppo Ferruzzi) e finita nei conti segreti dei principali partiti politici. Una vicenda giudiziaria che coinvolse personalità di primo piano, dall’ex segretario Dc Arnaldo Forlani all’ex segretario socialista Bettino Craxi, e che si concluse con qualche assoluzione e parecchie condanne, mitigate, a dire il vero, da una legge “provvidenzialmente” giunta in soccorso dei condannati.

Ma a qualcuno andò peggio, anche perché, in quei mesi convulsi, la morte non tardò a mostrare il suo volto. Alcuni imputati eccellenti si tolsero la vita in carcere o per sottrarsi all’arresto: tra questi Sergio Moroni, parlamentare socialista, e Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, la cui tragica fine (muore soffocato da un sacchetto di plastica nel carcere di San Vittore) sconvolse Gardini al punto da fargli dire: «È morto da eroe!».

Naturalmente è a sé stesso che Gardini pensa, quando pronuncia quelle parole, perché al banco degli imputati avrebbe dovuto sedere, molto probabilmente, pure lui, se non fosse accaduto quello che è accaduto. «Per me la sua morte è stata un colpo molto duro, quasi un coitus interruptus», dirà Di Pietro, che la stessa mattina in cui il Corsaro viene ritrovato morto lo attendeva in procura.

«Il suo interrogatorio avrebbe rappresentato una svolta per l’inchiesta e per la storia d’Italia. Avrebbe fatto i nomi dei beneficiari della tangente Enimont da 150 miliardi. Se l’avessi fatto arrestare subito, quella stessa notte, sarebbe ancora qui con noi. È stato questo il mio errore. Quella doveva essere una giornata decisiva per Mani pulite, purtroppo non è mai cominciata».

Il caso Enimont

Ma facciamo un passo indietro, a come tutto ha avuto inizio. È il 1988. Montedison, guidata da Gardini, e Eni, presieduta da Franco Reviglio (cui succede poco dopo Gabriele Cagliari), danno vita a Enimont, un colosso dell’energia di statura mondiale. Ma tra i due gruppi comincia la guerra per il controllo della nuova società.

La classe politica, per la quale Eni è una vera e propria cassaforte di famiglia, si mette di traverso e Gardini è in difficoltà: sommerso dai debiti, contratti anche per dare vita a Enimont, viene messo da parte dalla famiglia Ferruzzi, smaniosa di riconciliarsi con la politica.

Montedison è costretta a vendere la sua quota a Eni. Per di più c’è una montagna di tasse da pagare dovute alla plusvalenza generata dall’operazione: è qui che nasce la maxitangente da centocinquanta miliardi, per mettere a posto le cose e ottenere uno sconto fiscale consistente, oltre che un prezzo d’acquisto vantaggioso (come tale si rivelerà: 2.805 miliardi di lire).

A quel punto la magistratura inizia a indagare. Gardini finisce nel mirino del pool di Mani pulite. Viene convocato in procura, potrebbe essere arrestato. È a quel punto che accade l’irreparabile. Sono le ore 9:01 del 23 luglio. Siamo nel cuore della Milano degli affari. Un’ambulanza riceve una chiamata e si precipita in piazza Belgioioso, al numero 2.

Nello storico palazzo Raul Gardini viene ritrovato disteso sul letto, in un bagno di sangue. Un foro di rivoltella alla tempia. Ancora respira. Una mano stringe l’arma. L’altra un giornale spiegazzato sul quale si legge a caratteri cubitali: «Tangenti, Garofano accusa Gardini!». Forse non ha retto alla notizia. Garofano lavorava per lui. E ora a quanto pare ha deciso di vuotare il sacco scaricandogli addosso tutte le colpe.

Omicidio o suicidio?

Quando Gardini giunge in ospedale il suo cuore ha smesso di battere. Suicidio o omicidio? Per la magistratura non vi sono dubbi: Gardini si è tolto la vita. Ma molte cose non tornano. Innanzitutto la pistola: prima in mano a Gardini, poi finita sul tavolo. Anche ammettendo che qualcuno possa averla spostata in buona fede, si è mai sentito di uno che si suicida sparandosi due colpi in testa?

Questo del numero di colpi è forse il cuore del mistero. Sono stati uno o due? La versione ufficiale dice uno, ma non tutti sono d’accordo. E come mai il guanto di paraffina non ha rivelato tracce di polvere da sparo sulle mani di Gardini? Simili tracce rimangono per giorni, anche se uno si lava a fondo. E poi quel giorno si preparava ad andare in procura. E subito dopo, magistrati permettendo, al funerale di Cagliari.

Aveva chiesto al domestico di stirargli i calzoni. Perché quella richiesta se aveva intenzione di togliersi la vita pochi minuti dopo? Qualcuno sostiene che potrebbe aver ricevuto una telefonata che lo avrebbe sconvolto. Ma dai tabulati non risulta. E che dire delle versioni discordanti rilasciate dai testimoni presenti nella casa al momento del fatto?

Una cosa è certa: erano in molti ad avere interesse a vederlo morto per via di quello che avrebbe potuto rivelare ai magistrati. Per non parlare del bigliettino di addio ai familiari ritrovato sul comodino. La prima perizia calligrafica stabilì che si trattava della sua scrittura, ma anche che quelle parole erano state scritte mesi prima. Ma una seconda perizia finì per ribaltare la prima, stabilendo che il biglietto era stato scritto pochi minuti prima.

Caffè drogato e delitto di mafia

Quale delle due perizie è da ritenersi più attendibile? Tra coloro che propendono per l’omicidio, si sono avanzate diverse ipotesi. Una è questa: Gardini, dopo una nottata probabilmente insonne, fa colazione e si prepara a uscire. Fa la doccia e mentre esce si sente male, si accascia: qualcuno potrebbe avergli drogato il caffè. E, badate bene, gli inquirenti non si sono preoccupati di far analizzare quello che aveva nello stomaco, e nemmeno hanno disposto un prelievo di sangue.

Poi, mentre è privo di sensi, gli assassini, con la complicità di qualcuno, si introducono in casa, gli sparano alla testa e inscenano il suicidio. È un’ipotesi plausibile? Sinceramente non mi convince. Vi sono però altre ipotesi in campo.

Si è avanzata l’ipotesi del delitto di mafia, per via dei rapporti controversi di una delle società del gruppo, la Calcestruzzi spa, con gli ambienti della malavita organizzata. Tutto questo lo racconto nel libro L’ultima notte di Raul Gardini, che esce oggi, fornendo anche una possibile ricostruzione dei fatti a mio giudizio plausibile, che naturalmente qui non svelo.

Credo però che la verità non la sapremo mai. Una cosa è certa: quella morte ha deviato il corso del processo Enimont e in un certo senso anche quello della storia.

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