La Mitologia famigliare di Nadia Terranova – come quella di ciascuno di noi, naturalmente – a volte mente, a volte omette, a volte sbaglia. Su una cosa però sembrerebbe certa, e nella realtà di tracce ce ne sono parecchie: Venera è stata ricoverata per undici giorni al Mandalari, il manicomio di Messina; all’incirca cent’anni prima. Perché però? Cos’è capitato? Venera, bisnonna di Terranova, ha sempre avuto un posto speciale nei sogni dell’autrice e ora lei – la scrittrice che segue i fantasmi, che i fantasmi vanno a cercare – vuol indagare sulla vita di una donna che nella storia della famiglia è misteriosa.

Terranova, il nome della sua bisnonna in realtà non era Venera: qual era?

Preferirei non dirlo.

Perché?

Per risponderle, le racconto un aneddoto su Pamela Travers, l’autrice di Mary Poppins. Quando Travers incontrava Walt Disney, per discutere di quello che sarebbe stato il film tratto dal libro, lei lo chiamava “Mr. Disney” e lui “Pam” – la differenza tra i due modi mi sembra netta, le ragioni chiare. Ma Travers era astuta. Non si chiamava Pamela: il suo vero nome lo teneva per sé così da impedire che venisse sporcato. Io la mia bisnonna, in sogno e nella scrittura, l’ho sempre percepita come Venera, e tale vorrei che rimanesse.

Per cominciare, allora, le faccio la stessa domanda che le pone sua madre nel libro: la prima volta in cui ha sentito parlare della sua bisnonna?

La ricordo bene, e la riporto nel romanzo. Ero piccola, una bambina, e giocavo a cucù con mia madre e mia zia – gioco di carte siciliano. D’un tratto, dovendo star zitta per via di una regola della partita, emisi un rantolo, un suono debole, e loro, ridendosela, dissero sembra la nonna.

La nonna.

La nonna che non parlava più, la nonna che dopo esser stata in manicomio la bocca non l’aveva aperta quasi più: per un attimo avevo avuto la sua non voce.

Poi?

Non ne parlammo mai più. La Mitologia famigliare, invece, che ha molte teste e alla nostra storia ogni tanto omette e ogni tanto aggiunge, spesso si lasciava scappare qualcosa.

Cosa?

Poca roba. Brandelli. Tra quei brandelli, una parola: manicomio.

In casa non la si pronunciava?

In casa si è sempre detto il Mandalari, il nome del medico che fondò il posto, e da cui il posto prese il nome. Nessuno, comunque, ne sapeva tanto.

Tornando a sua madre e a sua zia che la paragonano alla bisnonna. Aldilà di ciò che dissero loro: lei crede di somigliare a Venera?

Me lo sono chiesta spesso, scrivendo il romanzo, e penso che quel che più ci accomuna sia la visceralità con cui abbiamo vissuto le gravidanze. L’episodio che racconto all’inizio del libro – quello in cui, al circo, cade e perde la bimba di cui è incinta –, vero o falso che sia, è l’accadimento per cui Venera viene ricoverata in manicomio. Ecco, la possibilità d’impazzire l’ho sentita molto mia: alla maternità Venera dava il valore di un’esperienza trasformativa e per me è stato così.

Ha detto vero o falso che sia parlando della caduta di Venera al circo.

Come siano andate le cose non lo sapremo mai. Quella che scrivo è una versione tra le tante possibili.

Un passo indietro: in che modo l’ha trasformata, la gravidanza?

Ho sviluppato un forte interesse per il presente. Non solo nella scrittura; questo è il primo romanzo che scrivo dalla nascita di mia figlia Luna, ed è il primo che ho scritto al presente. Ma pure nella vita. Adesso do un valore al qui e ora che prima non sapevo esistesse.

Sua figlia la incatena al presenta o l’ha liberata dal passato e dal futuro?

Mi ha liberata. Ed è bellissimo.

Quello che so di te è un romanzo sulla maternità?

Non credo. Piuttosto, penso sia sul fatto che la verità è la storia che ciascuno di noi si racconta per sopravvivere.

A proposito di presente, passato e futuro. Con la scrittura lei continua a tornare al passato, a un passato pure piuttosto remoto, a volte. I fantasmi a cui ha detto addio, qualche anno fa, traverso il titolo di un romanzo ci sono ancora, mi pare. Nessun addio, quindi?

A me piace l’idea di compresenza. Il passato sembra spesso una zona chiusa, un posto ben recintato. Io non sono d’accordo. Io credo nella compresenza di dimensioni: chi c’era e chi c’è e chi ci sarà convivono. I luoghi conservano le tracce dei passati passaggi e, al tempo stesso, hanno in sé il potenziale futuro.

I fantasmi con cui fatica di più a convivere? Non parlo solo di famigliari, amici, amori del passato, ma anche di vecchie versioni di sé, Terranova.

Le vecchie versioni di me stessa sono le meno digeribili, le più toste. Pavese diceva che ogni giorno è un nuovo cominciamento. Be’, a volte la voglia di azzerare è forte, fortissima.

Che ci fa, con queste sue vecchie sé?

Cerco sempre di non sopprimerle. Le tengo in un angolo, aspetto il momento più giusto per affrontarle. Credo sia normale, però, no? Starsi antipatici.

A me succede di continuo. Come le lavora, queste versioni?

Spesso le travaso nei miei personaggi peggiori, e si esorcizzano.

Persone, zone del suo passato che teme d’indagare anche con la scrittura?

No.

Netto.

Con la scrittura non ho mai paura.

In cosa si trasforma ciò che teme, una volta scritto? E lei come muta?

Raramente l’atto della scrittura modifica le paure o me stessa, più di frequente è l’essere letta, è lo scambio con i lettori, a salvarmi. Quando, dopo aver letto, mi dicono anch’io. In quell’anch’io c’è tutto. C’è l’allargamento.

Scrivere è bello ma non aiuta, essere letti non è bello ma aiuta.

Concordo.

Sul documento di dimissioni dell’epoca scrissero consegnata al marito. È qualcosa che colpisce, in effetti. Pure se noi oggi abbiamo parlato soltanto di donne. È una storia di donne, quella di Venera, questa che racconta?

Lo è certamente, ma ci sono anche gli uomini.

C’è il granatiere, marito di Venera - suo bisnonno. Perché non ha nome?

Mi piaceva l’idea che si identificasse con questa parola, granatiere; che lancia granate. È un personaggio importante.

Terranova, lei, d’un tratto, districandosi tra i suoi antenati, i fantasmi, si dice sorpresa: si era convinta di poter scrivere un libro senza padri e però eccoli che arrivano – scrive.

Gli uomini quando li metti sulla scena se la prendono tutta. Ma è bello, certo. A me piace scrivere degli uomini: mi aiuta a capirli.

Cioè?

Sono stata cresciuta da donne, ho una figlia femmina, mio padre è morto che io ero piccola: per me il maschile è ancora un tema esotico, e scoprirlo tramite la scrittura è interessante.

La sua bisnonna è effettivamente rimasta lontana dalle proprie figlie per undici giorni, chiusa in manicomio. Cosa crede pensasse, in quel tempo?

Doveva avere in testa il dubbio, che probabilmente si è trasformato persino in una consapevolezza, pian piano – una consapevolezza indotta dalle persone che aveva attorno; i medici, soprattutto –, che quella fosse la scelta migliore per le bambine. Che proteggerle dalla pazzia della madre fosse la cosa più giusta da fare, l’unica soluzione per il loro benessere.

Era una paura di Venera o è una sua paura, Terranova?

È una mia paura.

Forse è una paura che appartiene alla genitorialità.

Sì, forse. Però la sento molto mia, devo dire. Non ho questo timore solo verso mia figlia: l’ho sempre provato. Ho sempre pensato che le persone che amo e che mi stanno vicine debbano proteggersi da me, da quello che potrei far loro involontariamente. Nata Luna, però, mi sono detta che non può più succedere.

Nella Mitologia famigliare Nadia Terranova chi sarà, cosa diranno di lei?

Era quella che non si faceva mai i fatti suoi. L’impicciona che non lasciava in pace i morti (ride, ndr).

Glielo dicono mai? Che dovrebbe lasciarli in pace, i morti.

Una mia grande paura in proposito quando parlo con mia madre è che mi dica proprio questo: di lasciarli stare, questi morti.

È successo?

È successo.

Però?

Però, mi creda, sono loro che vengono a cercarmi.

Potesse dire qualcosa a Venera, cosa le direbbe?

Le direi che non è colpa sua. Che tutto quello che è successo non è colpa sua.

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