Una delle domande principali del nostro tempo è se sia possibile tenere insieme salute e felicità. Soprattutto se si basano su convinzioni che diventano gabbie, come esplora Nathan Hill in Wellness
C’è una scena in Grey’s Anatomy in cui Owen Hunt giustifica più o meno così a Cristina Yang la fine del loro breve e tormentato matrimonio: «Quando ci siamo sposati abbiamo preso una cosa grande come il nostro amore e lo abbiamo messo in una scatola. Abbiamo sbagliato. Rompiamo quella scatola». Lei concorda: così possono finalmente tornare ad essere, almeno per un po’ felici e innamorati come all’inizio del loro rapporto. (Poi, com’è prevedibile in una serie che continua da 24 stagioni, ci saranno altri e ulteriori decorsi, di cui non stiamo qui a rendere conto).
A volte mi metto in testa di adottare uno stile di vita più sano. Questo ammirabile proposito comporta, nel mio caso, principalmente due cose: fumare di meno e mangiare meno carboidrati. L’esperimento, lungi dal proseguire per ventiquattro stagioni, va avanti per due o tre giorni: pesce (principalmente merluzzo congelato), insalate di ceci, verdure di vario genere; poi, dopo massimo 72 ore, subentra l’irrevocabile consapevolezza che sto diventando irritabile e triste.
Mi accorgo che il mio comportamento nei confronti delle persone che mi circondano si è fatto scostante, la qualità della mia vita e delle mie giornate è al tracollo. Allora, con calma e compostezza, mi preparo un piatto di pasta, il più gustoso che mi viene in mente, e subito, da un momento all’altro inizio a sentirmi decisamente meglio.
Strano, perché era stato proprio per il – fittizio, illusorio – desiderio di stare meglio che mi ero autoimposta quella condizione di infelicità. La domanda ricorrente è sempre la stessa: esiste un compromesso fra salute e felicità?
Intorno a questi temi ruota Wellness di Nathan Hill (Rizzoli), un romanzo ingiustamente poco considerato nel nostro paese (soprattutto se si pensa alla roboante attenzione riservata a Il giorno dell’ape di Paul Murray, Einaudi): in America invece è stato selezionato come libro del club di Oprah ed è rapidamente diventato un bestseller del New York Times. Wellness parla di desiderio, di felicità e di matrimonio. Ed è proprio nei temi la forza di Wellness, che sebbene presenti una struttura forse più debole rispetto a quella perfettamente architettata dal collega irlandese, tocca più in profondità e in modo più realisticamente sottile tante questioni del nostro tempo.
Autocondanna
Attraverso la vita dei due protagonisti, Jack e Elizabeth, indaghiamo i limiti del matrimonio tradizionale e la difficoltà di crescere un figlio il cui concepimento è stato imposto, più o meno consapevolmente, dal contesto sociale. Descrive in modo molto efficace l’evoluzione degli algoritmi di Facebook, e l’effetto che hanno avuto sulla mente delle persone, facendo esplodere il sistema gerarchico e verificato delle informazioni (come ha scritto Augustin Mallo parafrasando Ginsberg: «Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da Facebook»). E, sul finale, Wellness dice anche qualcosa di molto vero sul dolore cronico, fisico e morale, che tanto caratterizza il nostro tempo. Wellness è, inoltre, una storia d’amore in piena regola.
Ma, soprattutto, Hill pone un’altra domanda universale ed eterna: la felicità può essere programmata a tavolino? Non rischia, la libera aspirazione alla felicità, di trasformarsi in un’autocondanna – nella più autoinflitte e irrimediabili delle disperazioni?
Nathan Hill costruisce Wellness come un romanzo-fiume che scorre tra le illusioni del presente e la nostalgia per un passato che a volte viene glorificato, a volte va in frantumi, e lo fa con un’attenzione quasi scientifica (antropologica e psicologica) per le narrazioni che ci raccontiamo sull’amore, sulla salute, su cosa significhi “essere felici”, “star bene”.
Effetto placebo
Jack ed Elizabeth, i protagonisti, si fanno portavoce di un malessere più profondo e collettivo, sembrano usciti da un manuale di sopravvivenza, da una parabola: un tempo idealisti, alternativi, convinti di poter essere migliori dei loro genitori, diventano una coppia che cerca rimedio a un malessere che non sanno neanche pronunciare: tra terapie di coppia, rimedi omeopatici, complicità erose e un figlio che li costringe impersonare ruoli sempre più distanti da loro stessi.
L’effetto placebo (ossia l’effetto curativo di qualcosa, sostanza o terapia, che di per sé non ha alcun effetto) che Elizabeth studia in laboratorio e poi sfrutta nella clinica che fonda, diventa la metafora più ampia e malinconica dell’intero libro: anche l’amore è un placebo? Anche la famiglia, la salute, la realizzazione professionale?
Hill non dà risposte, le fa intuire attraverso le domande che dissemina tra scene tragicomiche e improvvise illuminazioni. Il suo sguardo è ironico e compassionevole insieme, e racconta un’America – ma potremmo dire un’umanità – che ha smesso di credere in Dio e ha cominciato a credere negli integratori. Ma quello che più colpisce è la capacità di rendere concreto, quasi tangibile, il modo in cui certe convinzioni – sulle relazioni, sul benessere, sulla libertà – finiscono per diventare gabbie. Si voleva stare bene, si finisce per scomparire.
Jack, ad esempio, si affida agli algoritmi del fitness, ai sensori biometrici, ai dati. Vuole misurare la sua felicità come si misura un battito cardiaco. L’unica cosa che riuscirà però a misurare con il braccialetto che indossa cercando di migliorare il suo aspetto fisico è la frequenza con cui la moglie si autoprocura degli orgasmi non appena lui la lascia sola in camera.
Elizabeth invece confida nell’effetto benefico della narrazione fine a sé stessa: se crediamo in una cura, forse funzionerà. Ma il problema, suggerisce Hill, è che credere troppo nella narrazione può diventare pericoloso quanto non credere più a niente.
Jack «era felice di sapere che c’erano in giro milioni di persone che avevano i fondi pensione e lui era diverso da loro. Non aveva altra filosofia all’infuori di quella: essere diverso. Ciò che lo attirava di certe filosofie era il modo in cui lo facevano sentire differente dagli individui da cui voleva essere differente».
Il problema è che la vita, a prescindere da quanto vigili, ti porta dentro la scatola contro la tua volontà. Il dramma è questo: se ci si guarda dentro, se si guarda troppo a lungo verso le cose che abbiamo tradito, che abbiamo tradito involontariamente, si rischia di impazzire.
La necessità delle illusioni
In un bellissimo episodio di Sandman (24 ore), John Dee usa i poteri del rubino per impedire alle persone presenti in una tavola calda di mentire. I presenti prima si dicono la verità, poi fanno sesso tra loro, infine si uccidono. La verità infatti ci priva delle illusioni, ma le illusioni ci permettono di vivere. Così come l’effetto placebo inganna il nostro corpo al punto da indurlo a curarsi da solo, le illusioni ci ingannano al punto da rendere la vita sopportabile, persino bella.
Lo scrive bene Giacomo Leopardi nello Zibaldone: «Le illusioni per quanto siano illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle, ancorché sapute vane. E perdute una volta, né si perdono in modo che non ne resti una radice vigorosissima, e continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta l’esperienza, e certezza acquistata. (...) L’origine del sentimento profondo dell’infelicità, ossia lo sviluppo di quella che si chiama sensibilità, ordinariamente procede dalla mancanza o perdita delle grandi e vive illusioni».
Wellness (Rizzoli 2024, pp. 736, euro 22) è un romanzo di Nathan Hill
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