C’è un universo vivente sotto i nostri piedi, vasto, sconosciuto e sorprendentemente resiliente. È popolato da microrganismi che prosperano nelle profondità della crosta terrestre, in condizioni estreme, laddove la vita sembrava impossibile. Alcuni sopravvivono da centinaia di milioni di anni, metabolizzando lentamente tra roccia, acidi e persino candeggina.

A portarci a contatto con questo mondo segreto è la geobiologa Karen Lloyd, protagonista di una delle più audaci esplorazioni scientifiche del nostro tempo. Nel 2017, Lloyd si trovava sul bordo del cratere del vulcano Poás, in Costa Rica, per raccogliere campioni di vita sotterranea. Una spedizione al limite della sopravvivenza.

«Qual è il piano di fuga se questo coso esplode?», chiese con una punta d’ironia a un collega locale. La risposta fu gelida: «Facile. Ti giri e ammiri il panorama. Perché sarà l’ultima cosa che vedrai». Quella battuta si trasformò in premonizione appena 54 giorni dopo. Il vulcano esplose con la più violenta eruzione in Costa Rica degli ultimi 60 anni. Fortunatamente, Lloyd e il suo gruppo erano già lontani. Ma quel momento, racconta oggi, fu più che un pericolo scampato: fu un promemoria della fragilità della superficie e della forza misteriosa che si cela sotto di essa.

Negli ultimi vent’anni, le scoperte della geochimica microbica hanno trasformato la nostra comprensione della vita sulla Terra. Lloyd, titolare della cattedra Wrigley in Studi Ambientali e docente di Scienze della Terra alla University of Tennessee, è in prima linea in questa rivoluzione. Il suo ultimo libro, Intraterrestrials: Discovering the Strangest Life on Earth, documenta le forme di vita che abitano il sottosuolo del nostro pianeta: microbi in grado di "respirare" metalli, vivere in ambienti acidi e sopravvivere per ere geologiche con minime riserve di energia.

«Ci sono voluti anni per superare i problemi di contaminazione dei campioni», racconta. «Ma ora non ci sono dubbi: questi microbi esistono, sono vivi, e fanno cose affascinanti che stiamo solo iniziando a capire».

Per osservarli da vicino, Lloyd e i suoi colleghi hanno esplorato ambienti estremi: i vulcani delle Ande, le sorgenti termali islandesi, il permafrost artico, le faglie del sud-ovest americano e i fondali oceanici. In tutti questi luoghi, l’attività tettonica spinge in superficie acque antichissime, offrendo ai ricercatori vere e proprie "finestre naturali" su ciò che accade sotto la crosta.

Una delle ricerche più suggestive di Lloyd riguarda il fango dei fondali oceanici. È lì che vivono alcuni dei microbi più longevi del pianeta. Per studiarli, il team utilizza carotaggi e viaggi in sommergibili. «Immagina, dice Lloyd, di essere un microbo. Cadi lentamente sul fondale insieme a una pioggia di detriti. Poi vieni sepolto, strato dopo strato, e rimani lì per centinaia di migliaia, a volte milioni di anni. Senza quasi energia, ma ancora vivo».

Il dato più sconcertante è che questi organismi, pur simili nell’aspetto ai microbi moderni, sono geneticamente molto più distanti da noi di quanto lo siano le meduse o gli alberi. «Guardo i miei figli e una medusa: sembrano distanti», dice Lloyd. «Ma ci siamo separati da loro solo poche centinaia di milioni di anni fa. I microbi sotterranei, invece, si sono staccati da noi miliardi di anni fa».

Oggi si stima che ci siano 100 miliardi di miliardi di miliardi di cellule microbiche viventi sotto gli oceani — circa 200 volte la biomassa umana dell’intero pianeta. E non solo sono antichi, ma anche incredibilmente diversi nei modi in cui ottengono energia. A differenza della vita visibile, che respira ossigeno, fermenta o fotosintetizza, molti microbi del sottosuolo “respirano” metalli come l’arsenico o raccolgono energia dall’anidride carbonica.

Alcuni possono persino metabolizzare elettroni puri. Questa "respirazione", tecnicamente, è una reazione redox, in cui gli elettroni vengono trasferiti da una molecola all’altra. Quando accoppiata alla produzione di energia, diventa un vero e proprio meccanismo di sopravvivenza.

Sorprendentemente, i microbi che respirano metalli si trovano su rami evolutivi completamente diversi, il che suggerisce che questa abilità si sia evoluta più volte in modo indipendente.

Questo mondo nascosto ha potenzialità enormi. Lloyd però chiarisce: non cerca applicazioni immediate. Il suo obiettivo è ampliare il campo del sapere. «Voglio esplorare i limiti della conoscenza, per poi lasciare agli altri la possibilità di costruirci sopra». Ma l’entusiasmo resta: «Se una singola scoperta può rivoluzionare il nostro modo di vedere la vita, immaginate cosa possiamo ancora trovare laggiù».

Dopo il Big Bang

Per la prima volta, un team di fisici è riuscito a riprodurre in laboratorio le prime reazioni chimiche che hanno avuto luogo dopo il Big Bang. Si tratta di un passo cruciale per comprendere i meccanismi che portarono alla formazione delle prime stelle e, di conseguenza, all’evoluzione dell’intero cosmo.

A guidare la ricerca è stato Florian Grussie, del Max Planck Institute for Nuclear Physics (MPIK) in Germania. Il gruppo ha ricreato le reazioni che coinvolgono lo ione idruro di elio (HeH+) – considerato il primo composto molecolare dell’Universo – una molecola formata dall’unione di un atomo di elio neutro con uno di idrogeno ionizzato.

Questa molecola rappresenta il primo anello della catena che ha portato alla nascita dell’idrogeno molecolare (H₂), oggi la molecola più abbondante dell’Universo, nonché il "carburante" delle fornaci stellari. Capire il comportamento e il ruolo dell’HeH+ significa gettare luce sulle origini stesse della struttura dell’Universo.

Subito dopo il Big Bang, circa 13,8 miliardi di anni fa, l’Universo era un brodo caotico e incandescente di particelle fondamentali. Le temperature erano così elevate che neppure gli atomi riuscivano a formarsi. Bisognò attendere circa 380.000 anni prima che l’espansione e il raffreddamento consentissero agli elettroni e ai nuclei di unirsi per formare i primi atomi: in prevalenza idrogeno (75 per cento) e elio (25 per cento), con piccole tracce di litio. Fu in questo ambiente che si formò l’HeH+, considerato una molecola chiave per il raffreddamento dell’Universo.

Grazie alla sua particolare struttura – che presenta una marcata separazione tra cariche positive e negative – la molecola di HeH+ è in grado di interagire con i campi elettrici, dissipando energia e calore. Questo processo di raffreddamento è ritenuto essenziale per permettere alle nubi molecolari di collassare e formare le prime stelle.

Per simulare queste condizioni, i ricercatori hanno utilizzato il Cryogenic Storage Ring, una struttura avanzata del Max Planck Institute progettata per condurre esperimenti a temperature prossime allo zero assoluto (circa -267°C), e in condizioni di vuoto estremo, simili a quelle dello spazio interstellare. All’interno di questo anello criogenico, gli scienziati hanno analizzato le reazioni tra l’HeH+ e un atomo di deuterio – una variante dell’idrogeno con un neutrone in più nel nucleo. Il risultato è stato la formazione di un atomo di elio neutro e una molecola composta da un atomo di idrogeno neutro e uno di deuterio carico, nota come HD+.

La nuova molecola presentava livelli energetici più bassi rispetto ai reagenti iniziali: un indizio del potenziale raffreddante della reazione. Manipolando la velocità relativa dei due fasci di particelle – uno contenente HeH+, l’altro deuterio neutro – i ricercatori hanno variato l’energia dell’impatto per verificare se la temperatura influenzasse la velocità della reazione.

La sorpresa? Nonostante il raffreddamento, la reazione non ha rallentato. Al contrario delle previsioni teoriche precedenti, che suggerivano una drastica diminuzione dell’efficienza a basse temperature, l’HeH+ ha continuato a reagire con costanza.

«Questo suggerisce che le reazioni dell’HeH+ con idrogeno e deuterio abbiano avuto un ruolo molto più importante nella chimica dell’Universo primordiale di quanto pensassimo», ha spiegato il fisico Holger Kreckel del MPIK.

Lo studio dimostra che l’HeH+, grazie alla sua efficienza anche in ambienti freddi, ha potuto contribuire al raffreddamento delle prime nubi di gas. Senza questo passaggio, la densità necessaria per far collassare queste nubi e accendere la fusione nucleare non sarebbe mai stata raggiunta.

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