A inizio dicembre, Spotify ci confeziona una specie di presentazione powerpoint di tutto quello che abbiamo ascoltato durante l’anno, pronta per essere condivisa sui profili social. Si chiama Spotify Wrapped ed è forse il più simpatico uso dei dati che affidiamo alla sorveglianza delle app quotidiane.

Scopro così come due personaggi antitetici che seguo avidamente su Instagram (l’indoeuropeista armeno sempre in papillon e la poetessa radicale di Chicago) condividano un’insospettabile predilezione per il genere “mallsoft” – una vaporwave con dati di surrealismo, come se ti fossi appena fatto una canna in un centro commerciale, che immagino mettano su quando scrivono. Scopro anche che esiste, e trova un seguito tra le mie conoscenze, la musica “grime” (rap retrò londinese sincopato), e che è proprio vero, come sostiene da Cassandra coreanista Michela Murgia, che i Bts dominano gli auricolari di tre generazioni transatlantiche più di qualunque band occidentale coeva.

Genere e gender

Mi domando se i generi identificati da Spotify abbiano un gender. Non che mi interessi statisticamente cosa ascoltino di più le donne rispetto agli uomini, giacché da letterato so per esempio che la maggioranza di chi legge è femmina ma la maggioranza di chi è letto è maschio, e tende a scrivere da una prospettiva maschile.

D’altronde è sempre stato difficile ragionare su cosa sia, se esiste, la “letteratura femminile”, termine di per sé inquinato da strategie ghettizzanti del mercato editoriale, che hanno fomentato la resistenza delle scrittrici stesse – rimane iconica, anche se spesso fraintesa, la posizione di Elsa Morante, che si riferiva a sé come scrittore.

Mi pare che Amado mio di Pasolini sia in qualche modo più femminile dell’Isola di Arturo. Il Decameron è specificamente indirizzato da Boccaccio alle lettrici, Dante stesso si rivolge direttamente alle donne. Il Futurismo è l’avanguardia più scopertamente maschile e misogina sin dal Manifesto del 1909, ma Marinetti ne spiegava le ambizioni di annichilazione del femminile auspicando una futura donna virile del posdomani liberata dal proprio stesso genere, che fu in effetti animata poi in lingua italiana da incredibili autrici futuriste dimenticate come l’inglese Mina Loy o la viennese Rosa Rosà.

Musica e parole

Se parliamo di musica leggera però, la questione appare meno complicata. Alberto Savinio, il politropo ed ermafroditico fratello genio di Giorgio de Chirico, sosteneva che tutta la musica, al contrario della fallica pittura da cavalletto, fosse femminile (e praticava entrambe).

Le canzoni tuttavia sono più letterarie (vd. il Nobel a Dylan), e certi testi, certe interpretazioni, ci posizionano, quando ascoltiamo, in un certo angolo, da cui si vede una certa proverbiale metà del cielo o della mela.

Guccini canta ad esempio donne verissime, ma in testi che direi maschi (testi che forse proprio perché maschi e lucidi le fanno così vere, così tridimensionali).

Certo, ci sono casi indecidibili e costitutivamente non binari persino nel cantautorato. Quando per esempio Battiato cantava le canzoni che aveva scritto per Milva o Alice, le protagoniste dei testi rimanevano magicamente intatte nella loro carica di rappresentazione, anche parlando in prima persona con la voce del loro autore.

Quando Tiziano Ferro reinterpreta divinamente Morirò d’amore di Giuni Russo, un vertice assoluto del pop queer italiano del recente passato, sembra una necromanzia, una séance di quella donna inimitabile; come quando Luca Madonia (a Sanremo 2011 se non sbaglio, proprio con Battiato a dirigere l’orchestra) rifaceva La notte dell’addio rifacendo anche Iva Zanicchi (e non Memo Remigi) pur senza imitarla affatto.

Quando all’opposto Enrico Ruggieri canta (raramente per fortuna) la sua Quello che le donne non dicono si rompe fatalmente l’incantesimo lanciato da Fiorella Mannoia, e la natura di ridicola e vecchiarda fantasia maschile conservatrice della canzone si manifesta all’improvviso, cogliendoci di sorpresa coi complimenti dei playboy e ancora un altro sì.

Quando Marco Mengoni concorrente a X Factor cantò, per acuta intuizione di Morgan, Almeno tu nell’universo, qualcosa non tornava; la canzone resisteva, mi parve, al genere dell’interprete, pur vocalmente ed emotivamente adattissimo. Eppure quella canzone l’hanno scritta due uomini, Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio.

I classiconi da lip sync

Mi sconvolge, nella semplice ricerca che compio per scrivere queste righe, come tutti i classiconi da diva, o anti-diva, della canzone che mi vengono in mente, a partire dai due appena citati, siano stati scritti da uomini. Donna con te, Non sono una signora, Città vuota. Ero quasi pronto a dire che è quello un genere senz’altro con il suo gender (femminile).

Per definirlo vorrei ricorrere a un programma tv americano di grande prestigio che da quest’anno ha anche una versione italiana: RuPaul’s Drag Race, il massimo spettacolo internazionale del talento drag. Ne ho scritto su questo giornale qualche mese fa, e ne scriverò ancora. Il culmine di ogni episodio di tale show, la prova finale in cui Ru decide insindacabilmente chi continua (shantay) e chi abbandona (sashay) la competizione, si intitola “lip sync for your life”, che significa “canta in playback per salvarti la vita”.

Come si vede chiaramente in Priscilla, la regina del deserto, il playback è un’arte cruciale della drag queen: la performance di ogni aspetto di una hit femminile salvo il canto vero e proprio. Ursula, nella Sirenetta, sa che il linguaggio del corpo è sufficiente a stabilire una donna intera nelle logiche del patriarcato, e le basta rubare la voce di Ariel per sostituirsi a lei del tutto.

Le queen sbeffeggiano questa realtà, rivelandoci come maschile e femminile siano per lo più orpelli posticci che mettiamo o dismettiamo su qualsiasi corpo o identità – uno dei motti di Ru è «tutti nasciamo nudi, e il resto è drag». Definirei dunque il classicone da lip sync come quel genere di canzone che sarebbe saggio scegliere per dimostrarsi queen, chiunque ci sia sotto al drag, in una finale di Drag Race. E direi che si tratta, inaspettatamente, di cose da maschi.

Chi interpreta chi

Ora che ci penso, di questa faccenda non mi interessa davvero stabilire se una canzone femminilissima sia in qualche modo una frode quando scritta da un uomo – sono tra quelli che ritengono Elena Ferrante una donna, chiunque materialmente scriva le cose firmate da Elena Ferrante. Mi interessa piuttosto la funzione epistemologica, esplorativa, che certe canzoni evidentemente hanno per certi autori.

Il culmine di una delle più belle serie su Netflix, Master of None di Aziz Ansari, si gioca sulle note di Un anno d’amore, classicone di Mina il cui testo è firmato da Dina Tosi. Ma Dina Tosi è lo pseudonimo (in realtà il nome della moglie) di Alberto Testa, il paroliere di Quando quando quando.

Testa ha scritto anche Sono una donna, non sono una santa e, sempre per Mina, Anche un uomo, capolavoro di amara lucidità sul patriarcato in cui una donna matura spiega a una ragazza che gli uomini «sono tanto fragili fragili, tu /maneggiali con cura». «Anche un uomo», scrisse Testa col nome di una donna per la voce di un’altra, «può sempre avere un’anima / ma non credere che l’userà per capire te». O è un’ironica contraddizione, o scrivere certi classiconi da femmina può essere una via per evadere la maschilità stessa, un uso cognitivo dell’anima androgina.

Il brivido è lo stesso

La dipendenza e l’impazienza da Penelope di Ornella Vanoni in L’appuntamento, che esplode nel glamour di una scena del maschilissimo film Ocean’s 12, è l’espressione per interposta voce di un altrimenti inammissibile nodo emotivo di Bruno Lauzi.

Ho fatto l’amore con me di Amanda Lear è anche un gioco di ruolo di Cristiano Malgioglio, Minuetto di Mia Martini un esercizio d’immedesimazione di Franco Califano – che infatti la canta in modo sorprendentemente credibile. E che dire della formidabile Pierre dei Pooh, che già nel 1976 saggiava delicatamente il confine tra cis- e trans- con stratagemmi narrativi da Occhiali d’oro di Bassani: «E scusami se ti ho riconosciuto però / sotto il trucco gli occhi sono i tuoi; / non ti arrendi a un corpo che non vuoi sentire. / Pierre sono grande ed ho capito, sai / io ti rispetto: resta quel che sei. / Tu che puoi».

Mi domando chi sia Giuseppe Abba, che la Siae accredita come paroliere dell’oscuro capolavoro anni Ottanta di una cantante di cui non trovo altre tracce, Sonia Argento. Si intitola Supergay e racconta la frustrazione di una donna non ricambiata, con inusitati picchi lirici («per averti che farei / anche il sesso cambierei / per amarti un’ora sola, supergay»).

L’amore d’altronde «non ha sesso», ci informa Gigi D’Alessio per bocca di Anna Tatangelo, in Il mio amico, storia di uno stereotipato sodale che «fa di tutto per assomigliarmi tanto, vuole amare come me». «Il brivido è lo stesso» aggiunge. Ma in quale esperienza di genere si fonda l’inattesa chiusa: «e forse, un po’ di più»?

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