Per quanto le firme anche sedicenti progressiste dei nostri giornali deridano il concetto di identità di genere come fosse una sofisticheria arbitraria nemica del popolo, è ormai arcinoto che esistono numerose condizioni fisiologiche in cui è impossibile determinare se un corpo appartenga biologicamente a un maschio o a una femmina. La dicotomia secca, quella sì, diventa una questione arbitraria.

Di fronte a tali acclarate forme di intersessualità congenita o dello sviluppo, l’International association of athletics federation, unendo al danno la beffa, ha scelto due anni fa di determinare il diritto di un’atleta a gareggiare tra le donne in base ai suoi livelli di testosterone, e ha reso così ufficialmente uomini (oltre agli uomini) sia le donne che ne producono troppo con le proprie ghiandole sia quelle che lo assumono come sostanza dopante – per non dire di chi non è né uomo né donna, ma ne parliamo un’altra volta.

Oltre allo sport, un altro universo che appare fondato sulla distinzione maschile/femminile (nonché, incidentalmente, su due stagioni di andata e ritorno: primavera-estate, autunno-inverno) è la moda.

Della moda in Italia e nell’italianistica si parla tanto, ma spesso tanto male, tanto approssimativamente – come dello sport d’altronde. Mi pare che proprio le gabbie formali e normative in cui gli arbitri (elegantiarum o col fischietto) costringono simili discipline siano le più eloquenti cartine al tornasole per capire com’è che si evade da qualsiasi gabbia, e che la moda in particolare, con la sua pervasività totalizzante e sottotraccia nel tempo e nello spazio, abbia il potere, se interrogata, di rispondere ad alcune tra le domande più difficili sull’umano.

Dico “mi pare” ma la verità è che queste cose le ho imparate leggendo Maria Luisa Frisa, la più autorevole teorica di moda che si possa oggi leggere in italiano (ma forse in qualsiasi lingua).

Al cospetto di certi personaggi unici, la mia amica Ida Campeggiani (professoressa universitaria a Pisa, incomparabile studiosa di Montale, Ariosto, Michelangelo e metrica) soleva dire, quando eravamo dottorandi, con possente accento romagnolo: «È un genio incredibile». Calcando sulla prima “i” di incredibile.

Ecco, Frisa è così, con cinque “i”. Cercate la rivista che dirige, Dune, miracoloso incontro bilingue di design e visual studies che a ogni uscita appare come un pezzo unico e irripetibile. Cercate il suo saggio su come si vestono gli allenatori di calcio, o uno dei cataloghi delle sue mostre che finiscono per essere più importanti delle mostre stesse. Cercatela e basta, perché se vi interessano le cose da maschi vi interessa la mente androgina e punk di Maria Luisa Frisa.

Questa settimana Frisa è ospite di Cose da maschi con la memoria di una piccola mostra che ha curato a Firenze scegliendo oggetti maschili dall’inventario storico di Gucci, un closet evolutosi per quasi un secolo assieme all’idea di uomo che ha coltivato e contraddetto. Lo trovate qui.

Oltre a offrire una rapsodica lezione lampo sulla microstoria del menswear di un marchio iconico, è un saggio sulla fluidità mentale e su come essa, assieme alle sue imprendibili sorelle (la posa, l’attitudine, la performance), possa decadere o distillarsi in oggetti materiali, più o meno riproducibili. Da Tom Ford a Adam Driver e Lady Gaga, Frisa chiarisce con affabile erudizione che l’idea stessa di un maschio chimicamente misurabile e statico semplicemente non si dà.

Dal canto mio, l’idea essenzialista per cui una certa quantità di un certo ormone distingue positivamente il maschio dalla femmina mi ha fatto pensare al fatto che in questa rubrica si è scritto finora solo di cose in qualche modo esterne ed esteriori: simboli, orpelli, strumenti, e molte incarnazioni dell’armatura, dello scudo. È giunto il momento di indugiare per una volta sotto la scorza, oltre la corazza: sulle interiora, sulla biochimica.

Perché poi è a quell’intimo principio fisiologico che si ricorre in fondo per giustificare comportamenti odiosi, tipo pacche sul culo e capocciate in diretta (vd. molestie): quando la responsabile non è la fantomatica goliardia – altra cosa da maschi su cui urge un articolo storico-filologico – l’autore vero del misfatto diventa il testosterone, questo ingombrante demone ormonale che fa l’uomo ingovernabile e, ci raccontiamo, naturalmente propenso alla violenza, all’aggressione, alla competizione.

La reductio ad hormonem di queste fantasie raggiunge talvolta esiti grotteschi, come nella serie di libri autopubblicati The Testosterone Hypothesis di un seguace di Ayn Rand che si chiama Roy Barzilai e si definisce «independent scholar» (ma all’attivo ha appena una triennale in ragioneria).

Preferisco il grottesco consapevole ed esilarante dell’Hormone Monster della serie animata Big Mouth, capolavoro comico di Nick Kroll su Netflix che mescola adolescenza e affect theory, ricordandoci che la nostra biochimica ed endocrinologia, come le nostre emozioni, sembrano estranei che ci pilotano ma sono in realtà i discernibili ingredienti che ci compongono. Se l’anima o la psiche esistono, sono un impasto di quella roba lì.

Trovate l’articolo sul testosterone qui. Parte dalle formiche zombie delle foreste tropicali che ispirarono una vignetta di Zerocalcare e attraversa Dexter e The Wire, Liutprando da Cremona (per la gioia del #MedievalTwitter) e la storia della schiavitù, le teorie evolutive sulla calvizie precoce, Voldemort e Varys l’eunuco, per arrivare a un punto provvisorio: se il testosterone non avesse una funzione tanto chiara e utile nell’economia dei sistemi patriarcali potremmo forse più serenamente raccontarlo come l’ormone che è, invece di caricarlo di tossicità da premiare o castrare, invidiare o temere. 

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