Qui oltre l’Atlantico, dove l’accento di Roma non è tema di dibattito nazionale, Strappare lungo i bordi desta scalpore per questioni che si vedono solo di sbieco, e che pure sono il cuore della linea che Zerocalcare tiene da sempre: la bandiera del Kurdistan, il dileggio delle guardie, le botte al G8, la guerrigliera che si fa brillare nel deserto.

Fedele alla linea anche quando la linea non c’è, Calcare ha messo insieme una serie su come si abita fuori dalle linee – di sbieco, appunto, come si sta di regola noialtri naufraghi nativi della crisi. Gli amici a cui la mostro, doppiata in vertiginosa parlata anglo tipo Trainspotting, mi chiedono ammirati (o inquietati): «Ma davvero questo è mainstream in Italia?». E poi, citando involontariamente Dante, «E perché piangi?».

Sospetto che chiunque legga queste righe oggi sia reduce da un recente piantino con Calcare. È stata una specie di liturgia in remoto: qualunque Millennial o giovane Gen-Xer con cui abbia parlato su WhatsApp o Instagram ha attraversato (o si apprestava ad attraversare) la stessa esperienza.

E infatti saranno usciti sette milioni di articoli su tutte le testate e i blog e le riviste esistenti, perciò mi ero inizialmente ripromesso di non accollarmi anch’io con l’ennesimo pippone (tanto si sa che Michele Rech, come tutti quelli che hanno qualcosa da dire, è impermeabile all’esegesi e fa spallucce all’ermeneutica) e di godermi invece la serie per i cazzi miei. Ma come si fa a tenere una rubrica che si intitola Cose da maschi e a non scrivere niente di Zerocalcare questa settimana?

Da che ho memoria la gente mi dice di stare dritto, di non stare gobbo. Di tutte le cose da maschi di cui trabocca Strappare lungo i bordi quella che mi ha rapito è la postura mai eretta del protagonista, che nella sigla strappa appunto la sua figura smilza e curva dal tracciato di un palestrato con la schiena dritta.

Mi ha fatto pensare al fatto che Rech è straight edge, e che da quando lo leggevo sul blog a ora che riempie il MAXXI non ha mai deviato, non si è mai piegato, è sempre rimasto ossessionato dall’autenticità d’acciaio delle sue credenziali presso l’originaria comunità (localissima, ma anche internazionale e trans-storica a ben vedere) in cui si riconosce.

Eppure fisicamente sta sempre storto, come nei disegni, e come appare nella foto su Wikipedia mentre fa i disegni a una folla di lettrici e lettori in pellegrinaggio a una sua presentazione del 2012.

C’è una balsamica pace augustea (fascista?) nelle cose dritte e perpendicolari: scolaresche ed eserciti sull’attenti, opere da museo che non pendono, giustificate righe di curriculum, libri della stessa collana, merci sugli scaffali, grattacieli. Ma stando dritti si manca di vedere sé stessi, di contemplarsi, e si prendono le distanze dal prossimo.

Adriana Cavarero ha smontato la tradizione filosofica dell’uomo retto ed eretto nella sua critica femminista della rettitudine, opponendogli una soggettività inclinata capace di protendersi verso gli altri e di spaziare nelle infinite gradazioni d’obliquo che separano le due direttrici cartesiane con cui un tempo pensavamo di poter spiegare tutto: verticale e orizzontale, attivo e passivo, maschio e femmina.

Sulla copertina dell’edizione americana del suo libro c’è un quadro di Leonardo discusso al decimo capitolo: è il quadro da cui parto nel mio pezzo, che trovate qui e in cui cerco di spiegare perché la serie di Zerocalcare è queer. Non c’entra niente il fatto che «amare le femmine è da froci», come apprendiamo al minuto 2:00, né che Sigmund Freud avesse messo storto quel quadro, rivelandone un protagonista segreto, in cerca di indizi sull’omosessualità di Leonardo.

La questione è che queer è il contrario di straight, che significa dritto. E che ragioniamo sempre su come gente tipo Damiano dei Måneskin o Achille Lauro fanno fluida la maschilità, ma forse non abbastanza su come la facciano storta (e dunque più abitabile e varia e utilmente scomoda) gente come Michele Rech.

Con telepatia transoceanica anche il mio ospite di questa settimana ha imperniato il suo ragionamento su ascisse e coordinate, direttrici verticali e orizzontali (e cose che vi oscillano in mezzo).

Corteggiavo Marco Grieco, giornalista freelance e frequente vaticanista per Domani, da qualche tempo, perché mi pare che la «tribù del sacerdozio», come la definisce lui che se ne occupa, sia una cruciale popolazione da esplorare in questa rubrica.

Finalmente ricevo con gioia un suo corsivo trascendente su un oggetto che mi ipnotizza da sempre, catturando molteplici dei miei sensi: il turibolo, l’incensiere. Eccolo qui.

In quattro sezioni sciorinate senza esitazioni come un Kyrie, Marco esegue un’anatomia materiale e metafisica di questa cosa da maschi: un fornello aereo, un ventre di scintille, un vessillo del potere che collega nasi e cervelli, cielo e comunità terrestre, il nume immateriale e la carne immanente.

Con l’agilità che amo quando leggo una pagina di cultura collega la liturgia alla Scrittura, Chernobyl e Mosè, Dante e Game of Thrones. Parte dalla puzza e arriva alla gerarchia, vero motore immobile di tutto quel che accade nella galassia di cose con cui si celebra qualsiasi rituale. Non serve ricordare che quella gerarchia si gioca già tutta in un’omosocialità senza scampo, verticale, in cui le cose che contano le maneggiano solo i maschi.

Mettere insieme Zerocalcare e i preti, l’armadillo e l’avvoltoio di Leonardo da Vinci, l’incensiere e la puzza de piscio mi pare un discreto successo per questa settimana di Ringraziamento (chi mi segue su Instagram sa bene che al momento vivo assediato dai tacchini selvatici, e dunque ho almeno qualcosa da celebrare alla festa del colonialismo americano). Direi che a sto punto s’annamo a pijà er gelato.

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