Abbiamo passato la vita a scansarli. Averli in casa sullo scaffale ci farebbe arrossire. Quando su transustanziano su piattaforma siamo come mosche sulla tela di un ragno. È quel tipo di letteratura che nelle famiglie debitamente scolarizzate non si citerebbe mai e poi mai, pena la gogna sociale.

Chi di noi possiede in libreria un solo esemplare di romance novel? Winston Graham ha all’attivo dodici romanzi della saga di Poldark. Conoscete qualcuno che ne ha letto uno? Julia Quinn (al secolo Julie Pottinger) è stata per 19 volte nella classifica dei bestseller del New Yorker con i nove volumi del ciclo Bridgerton. Non è il tipo di titolo che chiederemmo ad alta voce in libreria. Diana Gabaldon ha venduto bene anche in Italia, per Corbaccio editore, i dodici romanzi della saga Outlander.

Devo dedurne, da sprovveduta, che esistono compartimenti stagni per i consumatori di libri: non l’avevo mai sentita nominare. Guardando al passato, dubito che le nostre madri abbiano letto una soltanto delle 13 opere del ciclo Angélique Marquise des Anges di Anne e Serge Golon, eppure i film con Michèle Mercier sono da collezione.

È guilty pleasure allo stato puro quello con cui ci si accosta alle serie tv figlie di questa letteratura. Non è giusto però considerarle alla stessa stregua. E forse è arrivato il momento di sdoganare il pleasure dal guilty, di riconoscere senza vergogna la dipendenza da grandi prodotti che stanano emozioni vere e di distinguerle dal pattume che si adegua alla pagina scritta.

Roba da “femmine”

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I critici paludati con questa roba non si sporcano le mani. Neanche la vedono, probabilmente, forse perché non  hanno lunghe domeniche vuote da consolare. È roba da femmine, perché di norma è in costume e parla molto d’amore.

Magari guardano Bridgerton solo perché viene promossa con grande strepito e si vende come all-inclusive, superficialmente politicamente corretta, anche se resta irrimediabilmente cheap. Poldark è antiquariato, pur essendo un grande successo della Bbc: amori e guai nella Cornovaglia di fine Settecento sono andati in onda da noi tra il 2016 e il 2020, anche se non manca chi ci si avventura a scoprirli fuori tempo massimo. Appartengo alla forse risibile schiera di quelli che hanno atteso la settima stagione di Outlander (su Sky e NowTv dal 2015, ultimi episodi da agosto 2023) in seria crisi d’astinenza, e che disperavano di poter contare su una stagione numero otto, che sembra invece garantita.

Ormai le serie partono tutte da libri, e di fatto anche il cinema . Il grande passo, l’incognita, è la trasposizione. Non è solo questione di soldi. È questione di sense and sensibility, per dirla con Jane Austen che è poi la madre nobile della materia di cui trattiamo. La storia-base di Outlander  poteva essere paccottiglia, perché è perfettamente inverosimile.

C’è un’infermiera reduce dalla Seconda guerra mondiale che nei pressi di Inverness, causa il misterioso influsso di un cerchio di pietre celtiche (Craigh Na Dun), viene catapultata nel 1743, in pieno fervore di rivolta giacobita contro l’oppressione britannica. Lei è ganzissima, ma non se la caverebbe senza l’aiuto di un ribelle più giovane e strappabudella come Jamie Fraser, pelo rosso e animo ardito.

L’amore che esplode tra i due supera travagli infiniti e separazioni pluridecennali, in un continuo viavai tra epoche inconciliabili da metaverso galoppante. So che per lasciarsi risucchiare da questa fiction poco plausibile è indispensabile essere fan delle cause perse.

La Scozia da qualche secolo è una causa persa, con buona pace di Sean Connery. E ammetto di aver parteggiato spudoratamente, sulle rotte scozzesi, per i malcapitati nostalgici di Bonnie Prince Charlie, che per disgrazia di tutti era l’erede al trono Stewart. Anche al netto di questo personale pregresso però la serie tv è fuori serie, perché le Highlands sono quelle vere e perché a controllarla sono gli scozzesi.

È vero che il creatore virtuale della serie è Ronald D.Moore, statunitense e per oltre un decennio assorbito da Star Trek (il che già lo renderebbe un Dio per gli eroi di Big Bang Theory), ma l’anima vera di Outlander sono una équipe tecnica prodigiosa, gli attori di contorno e le iconiche star, Caitrìona Balfe e Sam Heugan, che interpretano con devozione Claire Randall/Fraser e Jamie Fraser. Colgo l’occasione per ringraziare i loro doppiatori italiani, Francesca Fiorentini e Stefano Crescentini, perché un solo velo di retorica avrebbe massacrato il prodotto. 

Dipendenza non guilty

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Perché Outlander crea dipendenza non guilty? Sul piano strettamente estetico, per dirla con frivolezza, per il guardaroba. Svuoteresti gli armadi per fare posto ai “capetti” maschili che sfoggiano persino i personaggi minori. Spero che custodiscano i costumi per i posteri: sono da museo. Scopri, en passant, fino a che punto può essere sexy il kilt. C’è un rapporto di coppia esemplare: lei ha un paio di secoli di conoscenza in più, lui si adegua senza sentirsi sminuito. Se facesse scuola, diremmo addio ai femminicidi. Lei è più grande, lui nelle prime stagioni è uno schianto, ma tutti e due invecchiano solidarmente di pari passo con il girato senza perdere un filo di desiderio. E l’Eros conta, anzi è un motore potente.

Per niente convenzionale, oltretutto. Il villain di tutta la prima parte, Jonathan “Black Jack” Wolverton Randall (Tobias Menzies) è un sadico ufficiale inglese che aspira a fare sesso con lui, non con lei. C’è una scena di stupro e tortura maschile in carcere che non ha uguali, per quanto ricordo, in nessun filmato televisivo della storia, e viene offerta con un grado di ambiguità nella vittima decisamente audace.

E il cursus storico è da sballo: dai prodromi della rivolta giacobita alla Francia di Versailles, passando per la catastrofica battaglia di Culloden per arrivare alla Rivoluzione americana in cui “Red Jamie”, lo highlander, come la sua più consapevole moglie, milita dalla parte giusta. Di femminismo, senza fronzoli ma imperativo, ce n’è una valanga. Le donne bruciate come streghe vengono dal futuro, come la “guaritrice” Claire: è un’idea divertente. E nessuno dei buoni ama la guerra. Ci si trovano da irregolari cronici, la fanno, si battono, ma controvoglia. Conta anche questo.

L’identità scozzese

Ultimo, ma tutt’altro che secondario, aspetto della serie, l’uso del gaelico e l’affondo sistematico sul genocidio culturale britannico in Scozia. È una rivendicazione calpestata che precede, addirittura, la rivolta giacobita. Fa parte del corredo culturale di Jamie e Claire e dei loro figli e nipoti, nel racconto, e non fa per niente male riportare a galla questioni annose che la memoria ha sepolto. Non è dato saltare i titoli di testa per ogni puntata, per cui la “nenia” gaelica della sigla ti entra talmente nel sangue che finisci per includerla nella tua playlist.

È un brano ricco di storia, in realtà. La melodia risale a un periodo databile tra il 1762 e il 1790, il primo testo del 1884 rievocava la fuga di Bonnie Prince Charlie dall’isola di Skye dopo la sconfitta di Culloden. Ma poi ci rimise mano Robert Louis Stevenson in persona, e la serie ha adattato al femminile la sua versione di Skye Boat Song.

Dice: «Cantami il canto di una ragazza che non c’è più/ dimmi, potrei essere io quella ragazza?». La voce, magnifica, è di Raya Yarbrough, se vi pungesse vaghezza di cercarla su Google. In attesa dell’epilogo, annunciato per il 2025, l’ultimo episodio è dedicato in calce a Sinead O’Connor, morta troppo presto il 26 luglio di quest’anno. Non siamo in molti ad essercene accorti. Non era solo la donna cui Prince aveva affidato la sua Nothing compares to you. Era, lei irlandese, un’incrollabile paladina della lingua gaelica.

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