Il poeta W.H.Auden ha espresso l’ammirazione per Jane Austen in versi: «Joyce accanto a lei è più innocente dell’erba. / Mi mette in imbarazzo lo scoprire / una zitella inglese della media classe / descrivere gli effetti amorosi del “contante”, / rivelare francamente con tale sobrietà/ le basi economiche della società». E se per Tomasi di Lampedusa era «la più grande scrittrice del suo tempo», altri l’hanno paragonata a Shakespeare e persino Vladimir Nabokov, che considerava le narratrici di serie B («giocano in un’altra categoria» sosteneva), ammette che Austen fa eccezione e vede in lei «una vena di genio meraviglioso».

Senza contare i tanti riconoscimenti che le hanno sempre tributato scrittrici di diverse generazioni, da Katherine Mansfield a Edith Warthon, da Virginia Woolf a Jamaica Kincaid. Con l’eccezione di Charlotte Brönte, che non l’amava, il coro è pressocché unanime e Jane Austen siede stabilmente nell’Olimpo dei più grandi scrittori di tutti i tempi, ed è anche fra i più letti in assoluto.

Monumentalizzata

Può dunque sorprendere che la sua opera non fosse stata ancora monumentalizzata nella prestigiosa collana dei Meridiani. Ma ora la lacuna è colmata: l’opera omnia della narratrice inglese risiederà negli eleganti volumi blu della Mondadori. Anzi, il primo dei due volumi previsti è già uscito e raccoglie tre romanzi, Northanger Abbey, Ragione e sentimento e il notissimo Orgoglio e pregiudizio, più una scelta di scritti giovanili, da Amore e amicizia (tradotto da Letizia Ciotti Miller) a Lady Susan (nella traduzione di Linda Gaia).

Il secondo volume lo avremo fra due anni, perché la ritraduzione dei grandi romanzi è stata affidata a una sola, prestigiosa voce, quella di Susanna Basso ed è bene che i classici, quale Austen è senz’altro, continuino a parlare ai lettori in una lingua univoca e contemporanea. Cura e introduzione altrettanto prestigiose: le firma Liliana Rampello con un saggio imponente che spiega l’opera di Jane Austen, la sua importanza storica e la sua eccezionalità, e insieme rilegge i tanti commenti che si sono succeduti nel tempo.

Eccezionale e sorprendente, davvero, che un’autrice nata il 16 dicembre del 1775 e che visse i suoi quarantadue anni in piccole città (Steventon, Bath, Chawton) non essendosi mai spinta oltre Londra, sia stata capace di rivoluzionare la storia letteraria fornendo finalmente un punto di vista consapevolmente femminile sulla società.

Che non è un punto di vista rivoluzionario, anzi del tutto dentro il sistema socioeconomico che governava i ruoli come le classi come la differenza fra i sessi. Ma è la prima volta che uno scrittore dà voce al rimosso femminile in letteratura, che fa muovere e parlare le donne come solo una donna può esprimere.

La libertà di pensiero

Rampello s’interroga su «cosa succede quando, in un tempo dominato da millenni di pensiero e scrittura di uomini, in questo caso il Settecento europeo, irrompe la libertà di scrittura e di pensiero di una donna» e conclude: «Niente potrà essere più come prima, anche se ci vorrà tempo perché questo straordinario evento venga registrato».

Ma come fa a irrompere tanta libertà di scrittura e di pensiero? Non era una ragazza particolarmente colta Jane. Però il padre, George Austen, un reverendo illuminato, teneva all’educazione degli otto figli, maschi e femmine, e aveva intuito la propensione letteraria di quella figlia in particolare, la penultima, che era lettrice accanita della biblioteca paterna. George aveva creduto in lei e cercato di aiutarla a pubblicare le prime cose. Senza successo, ma questo è secondario. Importante era stato per Jane essere apprezzata, capita, incoraggiata in famiglia.

Giovanissima creava piccoli testi da recitare in un teatro casalingo. Ed erano cose spiritose e argute. Un’arguzia spiritosa che l’accompagnò tutta la vita e che le meritò da parte di una signora della cerchia domestica la definizione di «attizzatoio del quale tutti hanno paura». Insomma la sua lingua schietta lasciava il segno.

E chissà che non avesse pesato anche su una sua grande, e anche unica per quel che sappiamo, delusione amorosa, visto che la famiglia di lui costrinse il giovane a rompere velocemente quel non gradito fidanzamento. Per motivi economici: troppo povera Jane per le ambizioni della famiglia del ragazzo. Ma chissà, magari non apprezzata anche per il suo carattere fuori dagli schemi? Sappiamo poco della vera, intima Austen.

Il primo biografo, un nipote, Edward Austen-Leigh, figlio del fratello maggiore, ne lasciò un’immagine conforme agli ideali vittoriani: la zia ideale, dedita alla letteratura come una monaca alle preghiere, pronta ad accorrere a ogni problema domestico, che scrive in mezzo a una stanza e abbandona prontamente i fogli quando serve che prepari una torta. Basta leggerla per capire che doveva avere una psiche e un’indole ben più complesse, forse spinose, e che s’interrogava sul mondo intorno – senza però metterlo in discussione – sulle ingiustizie sociali, sui rapporti fra i sessi, fra parenti, fra amici.

Scissione

Già in uno dei primi romanzi, Ragione e sentimento, pubblicato col titolo Sense and Sensibility nel 1811, ma scritto in una prima stesura epistolare intorno al 1796, s’interroga su come tenere insieme ragione e sentimento, appunto, incarnati nelle due protagoniste, Elsinor e Marianne, scissione forse di un’unica donna: Jane in persona. Eccola quindi, poco più che ventenne, sperimentare due differenti possibilità di attraversare l’abisso amoroso e mettersi in salvo sotto le false sembianze di due creature di fantasia, dove l’irriflessiva, imprudente Marianne incarna un principio di disordine e ribellione, Elsinor è la ragionevolezza e capacità diplomatica di accettare le regole sociali e farsi accettare. Ed eccola, insieme, cercarsi uno stile – la sua personalissima via verso la salvezza – in un romanzo di formazione dal quale germoglierà l’equilibrio, il brio, la leggerezza mozartiana delle opere successive.

In Ragione e sentimento come nell’Abbazia di Northanger, parodia del romanzo gotico alla Ann Redcliffe, Austen si prende forse anche la rivincita sul suo scacco sentimentale appena subito con quel giovane che non l’aveva amata abbastanza. È infatti la storia di un equivoco: la giovane Catherine, di buona famiglia ma non abbastanza, innamorata del simpatico e ricchissimo Henry, viene invitata nell’avita dimora di Northanger dal padre di lui che la crede un’ereditiera per poi scoprire che non è vero e rispedirla a casa senza complimenti. Ma Henry non è un pusillanime, litiga col padre e alla fine la spunta, grazie anche al deus ex machina del matrimonio facoltoso della sorella, piovuto al momento giusto per consolare il padre e convincerlo a dare il consenso alle nozze non remunerative di Henry e Catherine.

Il lieto fine nell’universo di Jane Austen non manca mai e coincide col matrimonio, un contentino da dare al lettore per fargli credere che le sue convinzioni sono comunque intatte. L’eroina del romanzo sposa l’amato, l’amato si accorge finalmente di amare proprio l’eroina, una specie di «vissero felici e contenti per tutta la vita», ma quale vita e quale felicità?

La possibilità di inventare

Il lettore tira un sospiro di sollievo perché la tensione è finita e tutto è andato a posto. Quelli che erano destinati a incontrarsi e riconoscersi ce l’hanno fatta. Fosse più accorto il lettore si accorgerebbe che la tensione era solo narrativa, che il finale è soltanto un sipario che cala ancora una volta sulla misera, ripetitiva commedia umana, sulla vanità delle passioni. Cala sui sentimenti come sulle ragioni, sulle ragazze povere che si sposano bene e sui principi azzurri spesso un po’ sbiaditi. Tutto si equivale. Tutto eccetto una cosa: la meravigliosa possibilità di inventare e creare, di scrivere e manipolare.

Che soddisfazione per Jane Austen far trionfare nel finale le sue intelligenti protagoniste sulla spocchia ottusa dei loro futuri mariti. Darcy rende l’onore delle armi a Elizabeth alla fine di Orgoglio e pregiudizio infischiandosene dei desideri di una ricca zia che vorrebbe vederlo imparentarsi con una ragazza dalla dote più sostanziosa. E dire che conoscendola, a un ballo, l’aveva trovata «passabile» e niente di più.

E se Orgoglio e pregiudizio – con quel suo programmatico incipit: «È una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di una discreta fortuna debba essere in cerca di una moglie» – è il più perfettamente austeniano della scrittrice inglese, l’ultimo pubblicato in vita, Emma, è forse il più interessante, perché è quello che più austenianamente si discosta dal modello. Lo troveremo nel secondo volume con altri due celebri titoli, Mansfield Park e Persuasione.

Per ora godiamoci il primo, comprese le divertenti prove di romanzo di una Jane Austen in erba e irriverente, capace di aprire così il racconto in 9 capitoli Jack and Alice. Ozi e vizi a Pammydiddle (traduzione di Letizia Ciotti Miller): «Mr Johnson aveva, tanto tempo fa, 53 anni; dodici mesi dopo ne aveva 54, cosa che lo dilettò a tal punto che decise di festeggiare il successivo Compleanno offrendo un Ballo in Maschera…»

E continua su questo tono mettendo in burla una famiglia di ubriaconi e giocatori e la piccola società dell’inventato Pammydiddle, dove – spiega Rampello – «pam indica un gioco di carte e diddle una truffa». E anche chi pensa di conoscere tutto di Jane Austen avrà delle sorprese.

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