Indiana Jones numero cinque? Lunga vita al marketing, all’indispensabile mainstream da consumo di massa, che alimenta le fiere delle vanità e i red carpet da prima pagina. Prima di inondare le sale italiane, l’ultima impresa dell’archeologo-star era stata venduta, neanche due mesi fa, come l’evento clou di Cannes 76.

In contemporanea con gli eroici sgambetti di Harrison Ford – fuori tempo massimo come Joe Biden – passava sugli schermi cannesi, ugualmente fuori concorso ma con ben altro appeal, Occupied City, in qualche modo una nuova frontiera del cinema in cerca di rigenerazione, di nuovi linguaggi.

Il Festival francese difende sempre con le unghie e coi denti un traballante primato, si nutre di glamour a stelle e strisce, ma sono film come il kolossal sperimentale di Steve McQueen, afrobritannico noto ai più (ed è fargli torto) solo per l’Oscar a 12 anni schiavo, a consentirgli di restare, come pretende da sempre, «una finestra sul mondo».

Quattro ore e sei minuti di proiezione (con un intervallo di 15 minuti per fare pipì),36 ore di girato “buono”, cioè nove volte il final cut di questa opera monumentale costata tre anni di lavoro, Occupied City – che qualche filantropica istituzione dovrebbe farci il regalo di rendere fruibile in Italia – tecnicamente è una sfida e un appello allarmante alla memoria e al ragionare politico, oggi, sui fantasmi di ieri, che si riaffacciamo con l’estrema destra in ascesa.

A monte c’è un sorprendente libro di Bianca Stigter, moglie olandese del regista, Atlas of an occupied city ( Amsterdam 1940-45), non tradotto in Italia. Stigter è una scrittrice e regista speciale. Il suo Tre minuti (Three Minutes: a Leghtening) , visto alla Mostra del cinema di Venezia, parte da un home movie di questa durata girato nel 1938 a Nasielks, in Polonia, dove su settemila abitanti (tremila ebrei) solo in cento sopravvissero all’Olocausto, per ricavarne un’epigrafe folgorante su una comunità cancellata. Scrive in proprio e collabora con il consorte, artista visivo approdato al cinema con due sensazionali pugni allo stomaco come Hunger (2008) e  Shame (2011).

Un atlante per cacciatori di storia

L’Olanda è titolare della più alta percentuale di ebrei sterminati nell’ultima guerra: il 75 per cento, oltre 60mila nella sola Amsterdam. Il film è una sistematica, documentata mappatura urbana di Amsterdam. Centotrenta tappe, piazze, parchi, angoli di strada, case anonime che hanno celato nicchie di sopravvivenza per i bersagli umani degli hitleriani, tutti legati a vicende traumatiche dell’occupazione e tutti filmati nella routine ordinaria di oggi.

McQueen non utilizza un solo fotogramma di materiale d’archivio: fuori campo, la narrazione “neutra” dell’attrice e fotografa Melanie Hyams si incarica di gettare un ponte tra passato e presente. È un ritorno al passato per riflettere sul nostro comune futuro di fronte alla resurrezione di nazionalismi di estrema destra, tanto “sociali”, nelle pretese, quanto il nazionalsocialismo hitleriano. Il microcosmo della città olandese è un termometro valido per molte altre parti del mondo, e suggerisce paralleli inquietanti. Il senso è: potrebbe accadere di nuovo.

È più di un film, è la proposta di un metodo di sguardo, accessibile a tutti, per camminare nelle città che hanno subito la cancellazione nazista, fisica e culturale: ad Amsterdam si cancellarono i nomi, non solo le musiche, di Mahler, Mendelsson, Rubinstein, si sintonizzarono gli orologi sull’ora di Berlino. Si celebrò Rembrandt con le fanfare, reinventato come “eroe germanico”.

L’idea forte è usare il cinema per condensare memoria nel nostro presente, per riflettere, qui e ora, con quello che abbiamo a disposizione ogni giorno, su dove stiamo andando. Vuol dire guardare location geografiche familiari obbligandoci a cogliere significati rimossi, sedimentati nel tempo ma mai cancellati. C’è una costante, per il regista, ed è la ricorrente capacità della disinformazione di massa di mettere radici nella società nei momenti difficili, e la realtà che viviamo è precaria. Non solo Amsterdam, la sua città di adozione, convive con gli spettri di cui è popolata. Girando per buoni tre anni in tempi di pandemia, Steve McQueen ha intercettato i sentimenti collettivi, insidiosi, che il movimento No-Vax ha incanalato. 

I muri: testimoni da non ignorare

Non è comunque della Storia ufficiale  che si dà conto in Occupied City: la Storia è fatta di piccole storie infinite, con nomi e cognomi, deportati, fucilati a decine per rappresaglia, ebrei, socialisti e zingari, tanti, insospettabilmente tanti, suicidi per evitare il peggio, o per non dover confessare, o denunciare, sotto tortura. Gente comune che esce dall’anonimato dei numeri e delle statistiche. È un certosino campionamento di cronaca tra memoriali, giornali, memoria orale. I muri, i selciati, gli alberi sono testimoni da non ignorare.

La tappa iconica che manca, per scelta precisa, è la casa di Anne Frank in Westermarkt, anche se la ragazzina del Diario viene nominata parecchie volte nel film. «In qualche modo ho voluto tenerla, alla pari delle storie di tutti, come parte viva del presente, non del passato. Non volevo che la polvere si depositasse su di lei, che Anne Frank finisse, come è avvenuto per la sua casa, relegata in un museo», dice McQueen.

Agli antipodi di certi lacrimosi moduli cinematografici sulla Shoah, il nudo testo è esente da sentimentalismi: quel che serve è informare, secondo il regista, l’emozione deve mettercela lo spettatore. C’è il parco affollato di bambini che giocano a calcio, che un tempo fu tappezzato di cadaveri. I turisti sulla piazza antistante il Rijskmuseum non hanno idea dei fatti che su quel selciato si consumarono settanta anni fa. A questo incrocio fu abbandonato un neonato ebreo, lo fecero in molti, per evitare almeno ai piccoli la deportazione. Nel 1942, fu stabilito per legge che ogni bambino abbandonato andava considerato ebreo d’ufficio. Quell’ospedale fu adibito alla sterilizzazione delle “giudee” che avevano rapporti carnali con uomini ariani.

Il contrasto è ancora più stridente in una scuola che serviva da quartier generale alle SS. «Interrogavano e torturavano dove ora gli studenti hanno i loro armadietti e parcheggiano le loro bici, gli spazi sono rimasti immutati». A quest’altro indirizzo c’erano le “celle della fame” per i detenuti politici.

Un prototipo che lascerà il segno

Stilisticamente, il film è un prototipo. Ha più in comune con le opere di videoarte del regista che con la sua fiction narrativa. È più affine a Static (2009), la sua proiezione digitale sulla statua della Libertà, o a Grenfell dedicato all’omonima tower di Londra distrutta da un incendio, che ai suoi film di cassetta, magari intelligenti, come Widows. Ma nella mappatura ritroviamo anche i centri clandestini di resistenza, e le dimore degli ebrei delatori, dei collaborazionisti, di capi-comunità che discriminavano poveri e ricchi, i più degni, questi ultimi, di protezione.

Quasi nessuno, dopo la guerra, ha pagato con la prigione. Quello che scorre però sullo schermo è la vita normale, scuola, laboratori, yoga per i giovani, fisioterapia per gli anziani, matrimoni domestici in tempo di lockdown, un progresso civile che sembra acquisito per sempre. Solo gli spettri dell’anormalità possono tenere la tua coscienza in allarme. È da notare che non solo la voce incorporea, anche le targhe parlano di “assassinati”, non di “uccisi” per strada o nei lager.

Musiche minimaliste di Oliver Coates, decisamente appropriate, è un viaggio di ricerca tra i fantasmi di un trauma mai abbastanza lontano, di esplorazione, che Steve McQueen ha messo a frutto anche nel film con Saoirse Ronan che ha appena finito di post-produrre, Blitz: sempre Seconda guerra mondiale (vista dall’Inghilterra) ma finzione. Prodotto da Apple Tv, potrebbe andare a Venezia (che non è blindata contro le piattaforme) in concorso.

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