Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia viaggiarono molto insieme. Esplorarono negli anni Sessanta quello che si chiamava terzo mondo: soprattutto l’India, e l’Africa, accompagnati da Elsa Morante e Dacia Maraini. Il primo viaggio che fecero insieme avvenne nel gennaio-febbraio del 1961, in cui ebbe una parte importante Elsa Morante. I giornali per cui scrivevano volevano soprattutto notizie fresche  sulla “fame nel mondo”, visto che l’Italia attraversava il cosiddetto “boom” economico che la inseriva tra i paesi del Primo mondo.

Invitati a un convegno sul grande poeta indiano Rabindranath Tagore, attraversarono su un gippone guidato da un sikh in lungo e in largo l’India, da Calcutta a Mumbai, da Benares a Tanjore, a Madras. Moravia che aveva visitato l’India ventiquattro anni prima, era lontanissimo dallo stato euforico di Pasolini, che ritrovava i  suoi “ragazzi di vita”, intatti nelle baraccopoli indiane.

Noia moraviana

Fors’anche per la presenza della Morante, molto astiosa nei suoi confronti, Moravia per tutto quel lungo viaggio non si divertì come il suo accompagnatore e sua moglie. Sembrava annoiatissimo e per niente affascinato dalla povertà indiana. Per Pasolini indossò per tutto il viaggio un aspetto “terreo”.

Suscitava commenti ironici e divertiti soprattutto quando decisero di vistare i dakoyt, feroci banditi che assaltavano le automobili dei turisti e spesso li ammazzavano senza pietà. Rassicurato addirittura da Nehru, Moravia decise di accompagnarli, ma durante il viaggio il sikh si era prodigato in racconti cruenti sugli assassini.

Per Pasolini quella situazione pareva di «una ilarità irresistibile. Niente dakoyt». Dopo la mezzanotte Pasolini voleva uscire dall’albergo per dragare gli indianini. Moravia invece preferiva dormire, avendo paura degli sciacalli che si attaccavano alle caviglie dei passanti.

La Morante lo spalleggiava nel denunciare il presunto cinismo di Moravia nei confronti dei poverissimi indianini che loro avrebbero voluto riportarsi a Roma; come quel Revi, bellissimo, che nella capitale ci sbarcò correndo verso Cinecittà, dove però non incontrò quello che pensava lo ingaggiasse come attore.

Identificazione

Nella intervista che gli feci come introduzione alla ristampa di Un’idea dell’India, Moravia confessò: «Tra Pasolini e me c’era divergenza sul terzo mondo. Lui sosteneva che era rovinato dalla rivoluzione industriale e dal consumismo, io pensavo e penso ancora che il terzo mondo scomparirà e che non è abbastanza industrializzato e consumistico. Dalla cultura contadina non c’è da aspettarsi ormai più nulla di buono, dunque è meglio farla finita e fare davvero la rivoluzione industriale».

Quando gli chiesi cosa pensava Pasolini di lui mi rispose: «Non ho mai saputo che cosa Pasolini pensava veramente di me. Credo che apprezzasse soprattutto la mia vitalità, parola generica che forse comprendeva anche la mia letteratura… Insomma per lui ero un viaggiatore all’inglese, cioè in sostanza non terzomondista e sentimentale. Pasolini era invece portato a sottolineare l’esperienza personale, privata, intima, non necessariamente culturale».

Quanto a L’odore dell’India, il libro di Pasolini, mi precisò che «l’olfatto è il più animalesco dei nostri sensi e questo conferma il neo primitivismo del decadente Pasolini. La mia posizione è quella di accettare ma non identificarmi, quella di Pasolini di identificarsi senza veramente accettare».

Conoscersi meglio

Anche sulla religione indiana e sul marxismo le loro idee non coincidevano. La religione indiana era antichissima e pagana mentre per Pasolini era una religione pratica. Che dire poi del marxismo, che per Pasolini non aveva nulla di scientifico.

Quel viaggio certo servì ai due amici per conoscersi meglio; a Moravia che invidiava la promiscuità sessuale del compagno, quella pulsione ossessiva che lo portava a ricevere nella sua stanza d’albergo tutti quei ragazzi, a Pasolini che del timore del suo grande amico di fare brutti incontri notturni diede nel suo libro un ritratto comico.

Si erano incontrati nel 1947, nel salotto di un dentista di nome Weiss, di cui riferisce la Pieraccini nei suoi diari. Colpì da subito la Morante che vedeva in lui un novello Rimbaud. Moravia raccontò che venne a trovarlo un friulano «con il naso rincagnato», che gli portò un dattiloscritto intitolato: Ferrobedò. Al solito sembravano il gatto e la volpe.

Viaggio in Africa

Nel febbraio del 1969 Pasolini e Moravia viaggiarono insieme in Africa. Accadevano curiosi incidenti come questo, riferito dallo stesso Moravia in A quale tribù appartieni?: «Andiamo piano per non forare, ci fermiamo a un mercatino che sembra una balera. Dentro un alto steccato si stringe e si rimescola una folla seminuda, serrata e quasi immobile, teste contro teste, petti contro petti, ventri contro ventri gambe contro gambe, la quale si direbbe partecipare al mercato per bisogno di mondanità piuttosto che per comprare, quasi che il mercato fosse  una specie di cocktail party».

Naturalmente Pasolini punta l’obiettivo, e altrettanto naturalmente, ecco sopraggiungere una jeep della polizia. Ne scende un commissario barbuto, alto e magro che prende da parte i due autisti e gli parla a voce alta in lingua swahili.

Aveva gridato di non dover permettere a quelle due spie di fotografare la povertà della Tanzania, quegli scatti una volta pubblicati avrebbero allontanato i turisti. Moravia e Pasolini ripartirono, ma in un’altra località Pasolini tornò a filmare quando un uomo dai tratti caucasici li obbligò a seguirli al commissariato.

Per fortuna, dopo aver controllato i passaporti, furono rilasciati. In altri viaggi rubarono i loro portafogli e dovettero fuggire senza protestare. Ci fu un viaggio con Maria Callas e Pasolini, anch’esso pieno di imprevisti, quando negli aeroporti la Divina veniva festeggiata dalle autorità. E poi in Marocco dove Pasolini dovette ricredersi sull’Africa primitiva.

Il Marocco era in via di industrializzazione e aveva una cultura millenaria. Fu proprio in quel viaggio che scricchiolò la sua visione delle baraccopoli africane simili a quelle degli anni Cinquanta in Italia. È rimasto leggendario tra gli amici dei due giganti come Laura Betti e Enzo Siciliano un viaggio a Bucarest, accompagnati da  Ninetto Davoli.

Erano andati a curarsi con il gerovital l’incipiente vecchiaia dei loro corpi. Pasolini perdeva capelli e iniziava a tingerseli, mentre Ninetto lo tradiva con le ragazze del luogo. Al ristorante dell’albergo Moravia notò che Pasolini veniva riverito dai camerieri, mentre lui sedeva ignorato.

Al colmo della stizza avrebbe gridato: «Io sono Alberto Moravia!» facendo scoppiare a ridere Pier Paolo e Ninetto. Mentre nel viaggio in India Pasolini era quasi uno sconosciuto e Moravia era riveritissimo anche per i suoi romanzi tradotti nei Penguin Books, le parti si erano rovesciate, data la fama del regista.

L’ultimo incontro

L’ultima volta che vidi Pasolini ero uscito dalla libreria Feltrinelli di via del Babbuino e camminavo bel bello verso piazza di Spagna. Da un negozio di antiquariato uscì Pier Paolo, che mi incitò a raggiungerlo.

Aveva acquistato per il suo film Salò una poltroncina rossa d’epoca. Voleva che la portassimo nella sua macchina parcheggiata a Trinità dei Monti. Girammo, con quella poltroncina in mezzo, per via san Sebastianello, evitando la calca della scalinata. Qualche giorno prima era stato assalito con delle catene proprio lì vicino e Pier Paolo non voleva incontrare di nuovo quei loschi figuri.

Avevano usato le stesse catene la notte dell’agguato all’Idroscalo dove gli spezzarono il cuore. Fermandoci per riposarci in uno spiazzo mi confessò che non avrebbe voluto pubblicare più niente, anzi il suo “romanzaccione”, così chiamò Petrolio come Joyce appellava il suo Ulisse, lo avrei potuto leggere “postumo”. Non lo presi sul serio, sapendo che stava già immaginando un nuovo film. E invece, purtroppo, aveva ragione lui.

Renzo Paris è nato a Celano nel 1944 e vive a Roma dal 1955. Poeta, romanziere e critico, collabora con Il Manifesto, L’Espresso e il Venerdì di Repubblica. Recentemente ha pubblicato con Einaudi: Pasolini e Moravia. Due volti dello scandalo.

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