È morta Patrizia Cavalli, le cui poesie sono tra le poche italiane importanti di questi decenni postremi ad aver conosciuto un successo davvero popolare senza scendere a compromessi con simultanee credibilità indiscutibili, specchiate – veri premi, vere traduzioni, veri studi anche di giovanissime e giovanissimi, un’ostinata fedeltà alla propria poetica dentro cui il pubblico, semmai, è cresciuto come un terzo figlio negli abiti dismessi dei fratelli più grandi. Voglio dire che, pur trattandosi di un’autrice ormai addirittura canonica, di Patrizia Cavalli la gente ha in effetti i libri in casa, li conosce – e infatti ne fotografa le pagine per postarle sui social, mostrando non di scoprirla, ma di piangerla personalmente, nell’ora della sua dipartita.

Screenshot da Instagram e Twitter

Riapro questa corrispondenza con chi legge Cose da maschi nel segno di Patrizia Cavalli non solo perché partecipo, da lettore e studioso, alla malinconia fotografica che sta attraversando la comunità di chi ama i suoi libri, ma anche perché stamane ho appreso della sua morte proprio dai social, e specificamente da un post del suo editore storico che citava, in suo onore, il celebre grido di Alberto Moravia ai funerali di Pier Paolo Pasolini: «È morto un poeta». Non trovo più quel post, forse opportunamente cancellato perché (mi pare che lo scrittore Paolo Di Paolo se ne sia accorto per primo) faceva una brutta, fuorviante confusione sul maschile. L’accordo al maschile dei nomi e dei loro modificatori, delle parole che si alleano per restituire persone e cose che a volte non hanno genere (o nemmeno sesso), è una cosa da maschi? Di certo, dire «un poeta» per dire «Patrizia Cavalli» non sembra rispondere ad alcuna necessità particolare.

Se è vero infatti che da quasi un secolo si ripete giustamente che “poeta” – un po’ come “atleta”, “esegeta” e altri lemmi di analoga ascendenza greca – non ha davvero bisogno di un femminile in -essa (Oscar Wilde è un esteta, Madame de Staël sarebbe una estetessa?), è vero anche che quell’androginia morfologica, imparata sin dalle superiori sciorinando la prima declinazione del latino su poeta-æ per accostargli poi magnus-i invece di magna-æ, non si estende all’articolo. È morta una poeta – come Patrizia Cavalli tendeva a riferirsi a sé stessa – non un poeta.

Il genere grammaticale, in ogni caso, è un mistero che mi appassiona. So dalla mia amica linguista Rosalba Nodari, comparsa qualche mese fa su Cose da maschi con un articolo geniale sulla voce, che chi studia indoeuropeistica si scervella per capire come mai certi oggetti, in certe lingue, si accordino al femminile e altri al maschile. Pensateci un secondo e vi renderete subito conto che è difficilissimo spiegare logicamente simili oscillazioni, peraltro irriducibili a direzioni comuni nell’evoluzione di lingue sorelle e cugine, come quelle che radicano direttamente, appunto, nel latino – in italiano il mare, per dire, è maschile, ma la mer è femminile in francese.

Ricordo che la mia professoressa di Lettere del biennio ragionava sul fatto che i nomi dei frutti sono femminili perché fecondi e quelli dei loro alberi maschili perché generanti, che il “treno” è maschio perché penetra la “stazione” femmina, e altre assurdità. Giustamente qualcuno alzò la mano per chiedere «Ma scusi, e il pompelmo? e la macchina che penetra il garage?».

A prenderla sul serio, la questione del genere nelle lingue romanze è un casino, e lo sa bene chi le impara provenendo da lingue invece germaniche, se non addirittura asiatiche o ugrofinniche, e si impunta magari a voler capire perché il plurale di “il braccio” sia “le braccia”, o come “mano” possa essere femminile mentre “diploma” no.

Nella direzione inversa, vivendo quasi tutta la mia vita professionale e affettiva ormai in inglese, mi rendo conto che, anche in questa lingua che limita il genere ai pronomi e a pochi rari sostantivi spesso eruditi, la mia mente continua a dividere quasi tutto in maschile e femminile. Mi sorprendo quando, parlando della statua di una tigre su Nassau Street a Princeton, mi dicono he, cioè “lui”, perché nella mia testa, se non ne conosco il sesso, di una tigre si parla al femminile. La mia collega e amica del cuore Roberta Ricci, una filologa trasmigrata negli Stati Uniti più di vent’anni fa, parla del sito del dipartimento dicendo, col suo gentile accento toscano, «la nostra website».

Mi si dirà che certe scelte sul genere delle parole, e dunque delle cose, rispondono alle dinamiche di potere legate al genere delle persone. La mentore di Patrizia Cavalli, Elsa Morante, rivendicava per sé il titolo di «scrittore» in un senso molto diverso rispetto a quello che, per Beatrice Venezi, ha la richiesta di essere chiamata «direttore» e non «direttrice» d’orchestra. E allora forse Roberta, che è una femminista, dice «la website» perché è meno anchilosata di me nel passaggio dagli schemi della grammatica nativa alle possibilità ibridanti di uno spazio linguistico più poroso e duttile, in cui persino di dio si può dire “she” senza fare una forzatura.

A supplement to the English introduction of Lily's grammar: With Select Rules of the Genders of Nouns and the Heteroclites, immagine da Wikipedia

Vorrei proporvi, per l’edizione estiva di Cose da maschi che conto di condurre fino ad agosto (mese in cui le newsletter di Domani, inclusa la presente, andranno tutte in pausa), cinque cose – o meglio, cinque parole – che per caso sono profondamente diverse se, in italiano, le diciamo al maschile invece che al femminile. La sfida, un po’ da Settimana enigmistica in spiaggia, è di sceglierle solo tra quelle che non hanno un’origine comune nello stesso concetto latino, o greco, o arabo: parole che vengono da etimologie disgiunte e che, nella lingua di oggi, convergono in tutto tranne che nel loro genere.

Il foglio e la foglia, per esempio, non valgono, perché il genere serve solo a distinguere due accezioni di una cosa analoga, che affonda le radici nel folium. Il caso e la casa, invece, si prestano al gioco, e da loro partirò la settimana prossima con un nuovo articolo per Domani che vi racconterò nella newsletter del mercoledì venturo.

Nell’attesa dell’inizio di questo nuovo, conchiuso ciclo grammaticale estivo di Cose da Maschi – la cui scommessa sarà capire se l’arbitrarietà inspiegabile della genealogia linguistica non corrisponda, in fondo, a quella con cui attribuiamo maschilità e femminilità a oggetti, concetti, sentimenti e persone con le stesse insensate certezze della mia professoressa del liceo – questa settimana torna a trovarci Luca Fontò, che aveva già scritto per Cose da Maschi uno dei primissimi articoli ospiti. E lo fa con una cosa già in tema, giacché la pena e il pene (pur collegati nel suo arguto pezzo) divergono per genere e significato.

Dettaglio da Venere e Marte nella stanza dei marmi di Villa Carlotta in Tremezzo, immagine da Wikipedia

Ebbene sì, Luca ci regala un breve saggio sul c*zzo. È un saggio di gran gusto, per nulla provocatorio. Si pone, come tutti i saggi scritti davvero bene, delle domande autentiche, a cui non si può rispondere se non scrivendo, appunto, un saggio – perché si dice che le dimensioni non contano ma ci si comporta invariabilmente come se contassero? a quale bisogno risponde la mitologia del superdotato? e quali sono le conseguenze fisiologiche, psicologiche e culturali dell’inverarsi, in casi estremi eppure presi a paradigma, di quella mitologia?

Non so davvero come definire Luca, che ho conosciuto come fine disegnatore e grafico ma, nel corso di quest’anno, su Instagram, mi si è rivelato anche collezionista (ancor più fine, e autoscopico in modo struggente) di balocchi e pubblicistica, produttore di contenuti video e audio, racounteur. Leggendo quello che scrive non si può che concludere che sia d’altronde un giornalista, un giornalista culturale: uno che è capace d’intrattenere sul serio mentre fornisce sul serio alcune informazioni – statistiche, fatti, ragionamenti serrati.

Questo suo agile pezzo, in cui figurano pornostar e musei fallologici in Islanda, tocca questioni d’immaginario e di medicina, desideri e rappresentazioni, responsabilità e diversioni. Parla di body positivity e penis shaming, dismorfofobia da spogliatoio e gossip di celebrità. È un tour de force tanto divertente quanto intellettualmente maturo, e porta finalmente, in questa rubrica sulla maschilità, il dato corporeo cui si vorrebbe spesso ridurre, come a un ineludibile dato di fatto, l’essenza atomica del maschile stesso. Lo trovate qui su Domani.

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