La velocità è uno dei problemi che la letteratura dovrebbe affrontare per stare al passo coi tempi. Mi spiego: laddove la critica vorrebbe la velocità come un elemento deteriore, un impoverimento della lettura ridotta al turning page (quel voltare pagina da consumismo culturale e bulimia editoriale), c’è invece un autentico bisogno da parte del lettore di scritture contemporanee, capaci di tenere il passo della realtà. Insomma, dopo il diluvio universale della rete e delle sue nuove forme di fruizione, il paradigma del romanzo di una volta, orizzontale, statico, digressivo e pachidermico non regge più.

Un condannato dostoevskiano

Soprattutto in questo senso bisogna accogliere l’interessante prova dello statunitense Michael Bible, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (traduzione di Martina Testa), che Adelphi ha da poco mandato in libreria. La storia è quella di un emarginato, tal Iggy, che vorrebbe suicidarsi ma invece fa scoppiare un incendio in chiesa uccidendo ben 25 fedeli: per questo lo stato lo condannerà a morte.

La storia della sua vita è raccontata sia dal paese del sud nel quale è vissuto – racconto collettivo, a mo’ di coro greco –, sia dalla sua stessa voce. Passare dalla collettività al singolo (e al singolo per eccellenza, un condannato dostoevskiano, un fuoriuscito dalla società), cambia poco il ritmo e il registro delle pagine, perché Bible ha una cifra stilistica molto personale, pastosa e rarefatta allo stesso tempo, che lo avvicina a un poeta in prosa, ad esempio quello de Il mio cuore messo a nudo di Charles Baudelaire, e lo rende iper contemporaneo nel trattare con poche pennellate trama, personaggi, ambiente.

Tutto è appena tratteggiato, come se a monte di questa scrittura ci fosse la consapevolezza che il lettore non ha più bisogno come in passato di leggere tutto, ma solo ciò che serve, l’essenziale di questa specifica storia e non la realtà rimanente (che si dà per scontata, o per acquisita). Questa premessa rende questa scrittura una piccola rivoluzione e il cambio formale è notevole. È come se Bible scrivesse un romanzo come si scrive un racconto, usando sempre il numero di parole minime per fare quel che deve fare.

L’incipit dà già la chiave di questo approccio, comprimendo la parabola di un’intera generazione – e comunità – in poco meno di un capoverso: «Eravamo innocenti, convinti di essere speciali. Sbronzi tutti i week end al centro commerciale. Il mondo era nelle nostre mani. Non ci importava del tempo. L’amore era una cosa scontata. La morte aveva paura di noi. Adesso abbiamo il grigio nella barba. Il cielo è un livido viola. Il centro commerciale è morto. Siamo i vecchi che avevamo giurato di non diventare mai».

Questa serie impressionante di condensazioni crea un universo narrativo preciso e allo stesso tempo evita di perdersi in inutili descrizioni. Il sud degli Stati Uniti non è mai stato più disperato e violento, ma per dirlo a Bible basta scrivere che tutto il suo immaginario (schiavitù, guerra civile, puritanesimo, ad esempio nei romanzi di Margaret Mitchell, William Styron, Harper Lee), è stato scalzato dalla visione monolitica e centrifuga di un centro commerciale.

Un antieroe da annientare

Iggy è il classico personaggio dell’antieroe, a causa della sua eccessiva purezza per la società diventa un mostro da mettere alla sbarra e, possibilmente, annientare. Ha tutte le stigmate del predestinato, odia parimenti la scuola e la chiesa, e anche un po’ sé stesso. Compie letture da autodidatte e conduce una vita errabonda, sempre sul limitare della cosiddetta società civile.

Le uniche relazioni autentiche che intesse hanno una natura sessuale e misticheggiante (ma per Iggy, e forse per lo stesso Bible, i due aggettivi sono quasi sinonimi), verso una ragazza e un ragazzo, e nelle ore che procedono l’esecuzione della condanna a morte la sua mente è confortata soltanto da sogni in cui questa fluidità riprende corpo, torna a vivere. Anche in questo frangente la sintesi è l’aspetto più notevole. Per parlare del male di vivere connaturato a Iggy a Bible basta scrivere: «L’unica cosa che mi ha dato la forza di andare avanti per tutti questi anni è guardare le foglie che cadono».

La sintesi della scrittura

«Tutto l’interesse delle pagine descrittive non risiede nella cosa descritta, ma nel movimento della descrizione»,  diceva Alain Robbe-Grillet, aprendo uno spiraglio verso quello a cui stiamo assistendo compiutamente solo oggi. Per le neoavanguardie erano sperimentazioni, per noi potrebbero essere innovazioni necessarie. Il presupposto è che la scrittura – il linguaggio – sia un procedimento di sintesi: nel rappresentare un mondo narrativo produce sempre una forma d’astrazione.

Nella descrizione di un mondo la scrittura ha sempre mostrato tutti i suoi limiti, svelando, per così dire, la sua natura sintetica e lineare. Il mondo non potrà mai essere davvero catturato dalla scrittura, in quanto ogni suo aspetto è mobile mentre la scrittura è fissa, dà luogo a una ingessatura. Il mondo percettivo è infinitamente può vasto e dinamico della scrittura, che da par suo può e deve selezionare solo una serie di tratti, scomponendoli. Descrizioni troppo dettagliate del mondo non fanno che peggiorare la situazione, volendo colmare qualcosa di incolmabile, volendo raggiungere qualcosa di irraggiungibile. Mai come oggi è vero, e nessuno come Bible sembra averlo colto.

La lezione di Calvino

Nel racconto L’avventura di un poeta di Italo Calvino a un certo punto si vedono arrivare in lontananza due pescatori: «L’uomo ai remi era il giovane, cupo nel mal di denti, il berrettino bianco da marinaio abbassato sugli occhi stretti, la remata a strappo come se ogni sforzo servisse a sentire meno il dolore; padre di cinque figli; disperato. Il vecchio era a poppa; il cappello di paglia alla messicana gli coronava di una aureola tutta sfrangiata la persona allampanata, gli occhi tondi sbarrati un tempo forse per fierezza gradassa, ora per commedia di ubriacone, la bocca aperta sotto baffi spioventi ancora neri; puliva con un coltello i muggini pescati».

L’immagine è folgorante ma probabilmente oggi nessuno la scriverebbe più così, a partire da Bible. Troppi dettagli, troppo descrittivismo, benché mosso da stoccate geniali. Lo stesso Calvino parlò di fase figurativa per quel gruppo di racconti poi raccolti ne Gli amori difficili. Il punto è che Calvino scrive per delle persone che hanno visto infinitamente meno cose di quelle per cui scrive uno scrittore di oggi.
Al tempo di Calvino l’èra dell’immagine pura era una novità, oggi è un luogo comune (perché ha vinto). Calvino si preoccupa di far vedere perché sa che nessuno può farlo al posto suo, una preoccupazione puerile per lo scrittore d’oggi che, al limite, potrebbe essere tacciato di pedanteria, leziosità, manierismo.

Non solo mass market

Quindi esiste la possibilità che un romanzo veloce sia anche di qualità? La risposta, a giudicare da questa prova, è senz’altro positiva.

E non c’entra neanche la paginazione finale, che in questo caso è esigua. Si può essere molto veloci anche partorendo romanzi di ben altra mole, come ha dimostrato l’italiano Gian Marco Griffi con il caso editoriale dello scorso anno Ferrovie del Messico (800 pagine di una storia surreale e grottesca che si perde in volute di fumo, ma ogni singola pagina scorre via a perdifiato, c’è una verticalità pazzesca). Non è tanto il numero di pagine a determinare la velocità o la lentezza, quando l’approccio generale, o la premessa iniziale da cui si comincia a scrivere: quella, essenziale, di non poter rinunciare a bruciare le forma passate, quella di essere tutti consapevolmente figli del proprio tempo.


L’ultima cosa bella sulla faccia della Terra (Adelphi 2023, pp. 135, euro 16), è un romanzo di Michael Bible

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