E così ci si appresta a festeggiare i cento anni di Luciano Bianciardi, perché anche gli irregolari, per quanto strano possa sembrarci, sono nati e sono morti come tutti gli altri, e loro malgrado sono produttori d’anniversari. Festeggeremo nella maniera un po’ sgangherata e carsica in cui la gloriosa casa editrice ISBN gli dedicò un Antimeridiano, non senza tuttavia qualche squillo di tromba.

Ma chi era Luciano Bianciardi? Gaia Manzini nel suo A Milano con Luciano Bianciardi uscito in libreria per Perrone Editore ce ne offre un biglietto da visita impeccabile: «Luciano Bianciardi è stato più di uno scrittore: è stato un’icona, un bohémien, un disadattato, un arrabbiato che ha saputo commuovere generazioni di lettori. Milano lo aveva chiamato nel 1954, seducendolo con la promessa della grande impresa Feltrinelli. A Milano Bianciardi ci era arrivato in treno, con una valigia e l’indirizzo di una pensione scritto su un biglietto stropicciato. Aveva 32 anni e veniva da Grosseto, dove era stato professore, bibliotecario, energico animatore di una cineteca e della vita culturale della città. I compagni della Normale di Pisa lo avevano soprannominato Piedone: le scarpe grandi da contadino e quell’andatura strascicata, pencolante, di cui si vergognava. È un camminare pieno di rabbia il suo. Rabbia contro il potere e l’industria, contro il mondo della cultura e dei giornali; rabbia contro gli impiegati, le segretarie, i ragionieri, le loro camicie bianche e le cravatte azzurre; rabbia contro gli intellettuali che qui non riescono a fare gruppo, a influire sulla vita cittadina, ma diventano parte di un apparato e, se gli va bene, lavorano per la pubblicità».

Del resto per seguire e capire la sua vita basta leggere i suoi romanzi più famosi, che adesso Feltrinelli ha riunito in un unico tascabile ne La trilogia della rabbia.

La trilogia capolavoro

Una scena del film La vita agra

«Era l’ora di finirla con questo dilettantismo, con questa sterile erudizione, con questa mitologia delle origini antichissime. La cultura italiana, dicevamo noi, era già abbastanza aduggiata e mortificata da queste forme reazionarie e provinciali, dal campanile, dallo sciocco municipalismo». Così si legge nelle prima pagine de Il lavoro culturale, romanzo del 1957 sull’esilarante vita di provincia di un gruppo di intellettuali grossetani. I vitelloni di Fellini del 1953 è una pellicola che parla della stessa paura e attrazione di chi è nato nei posti piccoli: prendere un treno.

Anche in quella pellicola si indugia sul mondo degli intellettuali locali, presi da improvvisi slanci artistici puntualmente frustrati, in una realtà in cui le occasioni per spiccare il volo sono poche, e gli unici strappi alla regola sono malinconici veglioni di carnevale in cui sublimare la tristezza, le passeggiate domenicali al mare (in quel caso la Grosseto di Bianciardi è sostituita da Rimini, ma le città di provincia italiane in fondo si somigliano tutte). Luciano però alla fine il treno lo prende, e così anche il protagonista del suo secondo romanzo, L’integrazione del 1960, in cui si narrano gli anni del lavoro culturale, dei progetti editoriali, della Milano del boom, prima ancora che diventi da bere, prima che in effetti qualcuno se la beva.

È una Milano febbrile dove covano tutti i germi che la porteranno a essere, nell’ultimo scorcio di secolo con Mani Pulite, la capitale amorale d’Italia. Gli scrittori, come spesso succede, lo intuiscono prima degli altri, se già Dino Buzzati in una delle sue poesie più note avvisa: «Trascurate Milano / Evitatela nei viaggi d’istruzione».

L’impennata della città – prima di tutto architettonica, con le torri di Gio Ponti che, moltiplicandosi, la verticalizzano – per Bianciardi è tutto fumo e niente arrosto: i discorsi al bar Jamaica girano in tondo senza portare mai a niente, esattamente come avveniva al cine club di Grosseto. Le case editrici fanno riunioni inutili, in cui non si capisce quale sia il senso del lavoro, di più, non si capisce perché si debba lavorare. L’unica salvezza è andare a rinchiudersi nella propria stanza, alle prese con la traduzione di qualche libro: se non altro quello è un lavoro vero, tangibile, se vogliamo anche umile, da operaio delle lettere, al posto di mattoni e calce ci sono parole e pagine.

Dopo l’entusiasmo sopravviene la delusione, sulle grandi aspettative cala la scure del disincanto. E così il terzo romanzo, La vita agra del 1962, racconta del disfacimento dei sogni, della rabbia per le iniquità esistenziali e sociali, di azioni anarco insurrezionaliste soltanto vagheggiate, far saltare in aria il torracchione della società. Tutto crolla, resta solo la prossima pagina da tradurre, finché non si avrà il coraggio di rigettare il sistema e diventare «barboni per davvero». Il romanzo ha un successo inaspettato, e a Luciano Bianciardi si aprono le porte di tutti quegli ambienti che nel romanzo ha preso di mira.

È un paradosso, o uno scherzo di cattivo gusto: quanto più disprezza Milano tanto più Milano lo ama. Ma se l’integrazione diventa accettazione, o addirittura plauso, l’intellettuale di provincia perde la bussola, i suoi punti cardinali si oscurano. Anche perché la gloria è transitoria, l’applauso è una forma sottile e sarcastica di disapprovazione.

A processo  

Nel 1965 però l’incantesimo dell’approvazione si spezza, e Luciano Bianciardi viene addirittura accusato di oltraggio al pudore e vilipendio della religione di stato. In un racconto intitolato La solita zuppa costruisce un mondo che funziona alla rovescia, in cui il sesso in tutte le sue forme – anche le più triviali e proibite – è consentito, mentre il nuovo tabù è il cibo. In questo racconto che si basa su un evidente costrutto etico, il sesso ti viene recapitato a casa mentre per mangiare una fiorentina bisogna andare di nascosto al bordello.

Per il conformismo dell’Italia pre sessantottina è un testo irricevibile. In diversi intellettuali si mobiliteranno in difesa di Bianciardi, tra cui Umberto Eco che gli scrive: «Ritengo assai difficile che qualche lettore si sia inurbanamente eccitato alla lettura di questo racconto: ma se è accaduto, allora è costui che deve essere convocato a giudizio». Ora quel racconto e tutta la vicenda processuale sono in libreria grazie a ExCogita con Imputati tutti. Luciano Bianciardi a processo a cura di Luciana Bianciardi e Federica Albani.

Ma intanto Luciano è stato licenziato da Feltrinelli per scarso rendimento, Brera è soltanto un ricordo sbiadito dei primi anni milanesi – le latterie e la scapigliatura e i nebbioni romantici – e il nuovo alloggio in via Domenichino non è altro che l’ennesimo torracchione che lo opprime. Tornano tutti i fantasmi per l’assalto finale: il senso di inadeguatezza e di fallimento, il senso di colpa per la vita da adultero (a Grosseto ha moglie e figli, a Milano condivide la sorte con il suo grande amore, Maria Jatosti). Solo la bottiglia e una morte prematura possono salvarlo da tutto questo.

Bianciardi di ieri e di oggi

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Fin qui la storia nota, e le ripubblicazioni mirate per il centenario. Ma perché i ragazzi di oggi dovrebbero leggere Bianciardi? Perché è figura di scrittore archetipica, e i potenti simboli dei suoi romanzi hanno la capacità di parlare trasversalmente, ad epoche diverse. Prendiamo il famigerato torracchione, che per lui era una rivalsa sulla tragedia della miniera di Ribolla. È evidente che ciascuno di noi ha un torracchione da far saltare in aria, reale o metaforico. E non è un caso se la tipologia dello scrittore Bianciardi continua a perpetrarsi nel tempo.

Si va dai Landolfi e i Manganelli (sul versante del dandismo linguistico) alla disperazione di un Tondelli (non a caso messo alla sbarra della censura con il suo primo libro, Altri libertini). Da ultimo si può pensare ai matti Trevisan e Permunian, o al premio Strega per caso Tiziano Scarpa, tutti adunati sotto l’ombra lunga di Aldo Busi. Buon anniversario bianciardiano, dunque. Lo festeggeremo tenendo un pugnetto di polvere da sparo nelle tasche dei cappotti (leggendario l’aneddoto in cui dopo una riunione editoriale in Feltrinelli, Bianciardi si prese il cappotto di cammello di Giangiacomo a mo’ di esproprio proletario).  

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