A esordire nel cinema di finzione è “solo” il più visionario, applaudito e richiesto regista lirico dell’ultimo decennio, Damiano Michieletto. Che con la sceneggiatura di Ludovica Rampoldi porta sul grande schermo il romanzo epistolare di Tiziano Scarpa: la storia, nella Venezia del Settecento, di una delle orfane musiciste dell’Ospedale della Pietà e di Antonio Vivaldi
Da ordinari fruitori non siamo tenuti a rifletterci, ma nella settimana che precede il Natale pochi trovano il tempo per andare al cinema. Bisognerà pazientare fino al 25 dicembre per regalarsi un film italiano fuoriserie che non ha niente a che fare coi cinepanettoni e che è già stato venduto in cinquanta paesi, record strabiliante per un’opera prima. Va detto che a esordire nel cinema di finzione è “solo” il più visionario, applaudito e richiesto regista lirico dell’ultimo decennio, Damiano Michieletto.
Il suo Primavera, liberamente tratto dal romanzo epistolare di Tiziano Scarpa Premio Strega nel 2009, Stabat Mater (Einaudi), va in sala con Warner Bros. Pictures, entrata anche in coproduzione con Indigo Film. Ha un senso che Primavera abbia avuto la sua Prima mondiale nella vetrina nordamericana di Toronto anziché alla Mostra lagunare. È un lavoro che “nasce” da esportazione.
Piaccia o no la produzione di Antonio Vivaldi, il “prete rosso” del barocco italiano (tanto pop da registrare anche oggi con la più nota delle sue composizioni, le Quattro stagioni, sei milioni di ascoltatori mensili su Spotify) questo è un film di sorprese, di passioni ingabbiate ma lancinanti e di puro godimento. Per tutti i sensi o quasi. Ed è, per i nostri angusti orizzonti tricolori, un esemplare lavoro di squadra.
Le note inconfondibili della Primavera risuonano sui titoli di coda, ma il titolo scelto ha soprattutto una funzione simbolica. Perché di un “risveglio” parallelo parla il film, di una doppia liberazione, artistica ed esistenziale, che grazie a Dio non passa per la love story (cinematograficamente) di rito ma per il “crescendo” emotivo di una musica nuova, colorata, inquieta e vitale. Musica che è il pane quotidiano di Michieletto ma che qui esporta – fuori dai suoi abituali spazi teatrali – nelle spietate dinamiche assistenziali della Venezia del primo Settecento.
Il business delle orfane musiciste
Michieletto non è Zeffirelli. Si sgancia da ogni tentazione di teatralizzare il cinema e parte, per il suo Primavera, dalla metafora dei gattini neonati sorpresi dalle orfanelle del veneziano Ospedale della Pietà: rara delizia per le recluse troncata dal fulmineo annegamento delle creature nel canale vicino. Maternità negata, come i diritti di chi una madre non l’ha conosciuta.
È il fantasma che tormenta Cecilia (la Tecla Insolia rivelata da L’arte della gioia, qui ancora più tosta), vent’anni vissuti da invisibile per il mondo esterno e una sola illusione a cui attingere: il sogno che una madre venga un giorno a reclamarla. Come nel romanzo di Scarpa, di notte scrive segretamente lettere struggenti a questa donna senza nome.
Ma la trasposizione della pagina scritta nella sceneggiatura di Ludovica Rampoldi è così fresca che dimentichi la forma epistolare del libro. Non però gli ingranaggi complessi delle Pie Istituzioni veneziane (oltre all’Ospedale della Pietà, i Derelitti, i Mendicanti e gli Incurabili) che avviavano alla musica le orfane dotate e si contendevano la palma della migliore orchestra. Con relativi introiti.
La minuziosa descrizione del business delle virtuose è una delle perle del film. Ci sono i concerti domenicali per i patrizi, con le musiciste rigorosamente celate dietro una grata e le note che cadono come dal cielo. Ci sono le donazioni in ducati sonanti per le pulzelle (certificate vergini dal cerusico perché «tutto quello che valiamo sta lì») vendute in sposa ai vecchi in calore. I finanziamenti dei ricchi – mai disinteressati – mantengono le opere di Carità.
Pudicamente mascherate, le talentuose sfruttate escono di clausura solo per rallegrare le feste di lusso – proprio come le band blasonate di oggi ai party dei potenti – e perfino l’agonia dei moribondi facoltosi. Michieletto trasmette atmosfera senza pagare prezzi al rigore. E le riprese delle esecuzioni – che convogliavano davvero a Venezia regnanti e scrittori di tutta Europa per la fama delle orchestrali – consigliano di memorizzare il nome di Daria D’Antonio, che firma la fotografia. La colonna sonora – Vivaldi e Fabio Massimo Capogrosso, in sintonia – si è meritata un vinile ad hoc.
Vivaldi, Cecilia e il “risveglio”
L’Antonio Vivaldi di Michieletto è Michele Riondino, che non solo è bravo ma peccati di enfasi non ne commette mai. Quando il Governatore della Pietà (Andrea Pennacchi) e l’inflessibile Priora (Fabrizia Sacchi) lo richiamano come maestro di violino e concerti – solo perché le donazioni stanno prendendo altre strade – è quasi alla fame, minato da una malattia che lo perseguita fin dall’infanzia. È un solitario tormentato dall’insuccesso, «venduto a Dio» e al sacerdozio fin dalla nascita, ribollente di armonie inconsuete, non accademiche, che cercano sfogo e consenso.
La solitudine del maestro e quella di Cecilia – promossa d’istinto primo violino «perché ha quello che le altre non hanno, non vuole essere lodata» – troveranno ispirazione e senso l’una nell’altra. Non per sentimento amoroso, ma perché nella musica trovano voce e identità. Anche se il percorso di Cecilia, la sua “primavera”, sarà molto più radicale. Promessa sposa al nobile militare Sanfermo (Stefano Accorsi in un cameo), al suo ritorno dalla guerra contro i Turchi sceglie la disobbedienza e si fa trovare “violata” per non lasciare la Pietà e non rinunciare al violino. E anche di fronte alla vendetta più atroce – il prezioso polso sinistro spezzato – non si rassegna a restare vittima. Fuori da quelle mura c’è il mondo intero. «Ho perso tutto ma ho quello che mi serve: sono libera di inventarmi la mia vita».
La storia anomala della fortuna artistica di Vivaldi a rigore meriterebbe un film a sé. Sepolto in miseria dentro una fossa comune, rimosso per due secoli, Vivaldi è stato riscoperto a Novecento inoltrato dopo il ritrovamento casuale di un centinaio di spartiti. Oggi diamo per scontate le Quattro Stagioni, ma solo l’incisione de I Musici, nei primi Sessanta, ne hanno fatto un classico universale. E questo non è un biopic. È un film sulla bellezza. E sull’emozione che – a volte – ti insegna a vivere.
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