Qual era il vero dono che i Lotofagi consegnarono ai marinai di Odisseo? Forse la liberazione dal peso di dover tornare a casa. Il desiderio di riappropriarsi della vita precedente li aveva indotti ad attraversare di nuovo il mare, vivendo la punizione dell’ennesimo viaggio. I Lotofagi offrirono loro un «cibo di fiori», e chi ne mangiava «non aveva più voglia di tornare, né dare notizia di sé».

Insomma, a quegli uomini era stata offerta l’occasione di guarire dal male profondo dell’identità, dal dovere di incarnare un ruolo, di essere squadrati da una missione. Finalmente liberi di coincidere con la loro condizione di naufraghi.

L’inciso omerico narra, a suo modo, un episodio legato al consumo di una sostanza che noi contemporanei definiremmo senza troppe eccezioni “psicotropa”, mostrando come il suo uso, oltre a essere un fenomeno arcaico e connaturato all’uomo, abbia a che fare con il lenimento del dolore, con la fuga dalle aspettative nostre e altrui. In questo, forse, passato remoto e tempo presente non sono poi così distanti. 

Una ricostruzione enciclopedica

Questa piccola memoria di scuola mi pare adeguarsi bene a molti dei passaggi che scandiscono l’ultimo lavoro di Vanessa Roghi, intitolato in modo quasi eponimo Eroina (Mondadori 2022). Una ricostruzione accurata e dalla vocazione enciclopedica che riesce a chiarire agli occhi del lettore di oggi le complesse vicende di alcune sostanze come oppio, morfina, eroina, ma soprattutto di storicizzare con puntualissima precisione la loro funzione, e infine la loro pubblica narrazione. Una «storia dell’eroina e della costruzione culturale della figura del drogato» caratterizzata da uno scandaglio empatico che mai si arrende – anche in forza di una ricca documentazione intermediale – al senso comune e anche alle false cristallizzazioni della memoria collettiva.

Primo perché il consumo di sostanze, e quello di eroina in particolare, non è esclusivamente un fenomeno del passato; secondo perché la cosiddetta tossicodipendenza non è un evento che può essere spiegato con i soli strumenti della medicina o con il commento alle norme che hanno cercato, invano, di governarlo: è un fatto umano, e come tale ricade nella complessità sistemica delle vite, delle singole vite, nessuna davvero uguale all’altra.

«Diventa dipendente chi trova nella sostanza una risposta stabile a una domanda che già esiste: questa domanda può essere dettata da abuso, incapacità di adattamento, dolore, anche dolore fisico», scrive Vanessa Roghi nelle premesse di Eroina. Una disamina che tocca le ragioni sociali, culturali, attraverso le leggi, gli articoli di giornali, le firme, le testimonianze dirette e indirette fino a coincidere, quasi epigraficamente, con quanto scriveva William Burroughs in La scimmia sulla schiena nel 1973: «La droga non è, come l’alcool o come la marijuana, un mezzo per intensificare il godimento della vita. La droga non è euforia. È un modo di vivere».

L’eroinomane ne emerge dunque come “figura”. Ne possiede lo status in virtù di una scelta, ovvero quella di legare la propria esistenza all’uso di una sostanza. Scelta drammatica, si potrebbe obiettare, le cui premesse molto spesso sono rimaste fuori dalle analisi ufficiali. Esemplare è la trascrizione di una testimonianza tratta da Storia di Filomena e Antonio. Gli anni ’70 e la droga a Milano, documentario del 1976 di Antonello Branca, dove uno dei molti intervistati afferma che l’attrazione verso l’eroina è alimentata «dalla paura di fare la stessa vita dei nostri genitori, una miseria che non è soltanto materiale ma è di prospettive».

Sguardo terzo 

Sul versante narrativo, in tempi abbastanza recenti, la possibilità di una simile figurazione aveva già nutrito le pagine di Gli anni al contrario di Nadia Terranova (Einaudi 2015), opera che incarna in ambito italiano lo spirito di una condizione “inedita”, ovvero quella dei figli e delle figlie di genitori che sono stati eroinomani (tre anni dopo, per strade diverse, la stessa Roghi lo fece presso Laterza con Piccola città).

Nel romanzo di Terranova le vicende dei suoi protagonisti riflettono nella loro compiutezza una condizione seminale. Sono attori espliciti di una funzione all’interno di cui, da una parte, si agita una borghesia manichea, divisa in fazioni (conservatrice la famiglia di lei, di sinistra la famiglia di lui), ma unita in un’istintiva difesa della cellula familiare; dall’altra un movimento politico e sociale che, in coincidenza con il proprio esaurirsi, sperimenta per la prima volta lo smarrimento in un mondo grande e terribile.

Per i figli e le figlie, dunque, la strada verso il consumo di sostanze psicotrope, tra cui la dirompente eroina, diventa di facile scorrimento. Tuttavia sullo sviluppo di questo nucleo narrativo si riflette il punto di vista, a volte partecipe a volte alieno di Mara, la figlia di Giovanni e Aurora, i due protagonisti. Ed è proprio questo occhio terzo a ribaltare radicalmente il quadro. Nel suo racconto, infatti, non c’è giudizio né condanna verso il padre che cede all’esperienza dell’eroina, e nemmeno verso la madre che spesso si rifugia nell’inespugnabile fortezza del suo universo interiore.

L’opera condotta da Mara ha prima di ogni cosa carattere e andamento memoriale: chi sono? Da dove vengo? Chi sono i garanti e i martiri – nel senso etimologico – della mia origine? A cosa serve la storia che sto raccontando? Serve a ridare dignità al dolore, a ripristinare l’avvilupparsi improvviso degli eventi, quando tutto pare insensato (l’amore, la vita coniugale, la malattia) e resta solo il sentimento della colpa, quella altrui e la propria. E in questo caso lo stigma assegnato alla dipendenza emerge nella sua disumanità, come fosse una lettera scarlatta, e non invece l’esisto di una condizione, il paradigma di una scelta. La Mara di Claudia Terranova diventa così consapevole che da un naufragio può conseguire un’evoluzione, una metamorfosi, di cui i sopravvissuti infine possono scegliere di incarnare il volto.

Memoir dolente

Le aspirazioni de Gli anni al contrario parrebbero echeggiare anche in La paura ferisce come un coltello arrugginito (Nottetempo 2023), recentissima opera d’esordio di Giulia Scomazzon. Qui le sponde della finzione narrativa sono diventate vero e proprio memoir, e il recupero di una storia familiare, dei suoi legami con l’eroina, si materializza nel ritmo di un vero e proprio percorso terapeutico.

Il disincanto di un’infanzia povera di ricordi ha lasciato il posto alla consapevolezza di un trauma senza nome, al quale è necessario – quasi per dovere antropologico – dare un volto, un tempo, un ruolo nella propria esistenza. Un lavoro dolente, totale. La voce di Giulia Scomazzon possiede il dono di una cadenza ipnotica, avvolgente, come se le scoperte di cui man mano mette a conoscenza il lettore (la dipendenza dall’eroina della madre e le tragiche derive conseguenti) appartenessero già a un suo scrigno remoto, nascosto in bella vista, sinistro e familiare. Un piccolo vaso di Pandora dal quale riemergono il profilo amorevole di una donna scomparsa troppo presto, i suoi sogni, le sue aspirazioni, l’amore per l’uomo con cui per un periodo aveva condiviso l’esperienza della droga. Tutti tasselli di una storia che vale in sé, nel suo portato umanissimo, ma soprattutto per il viaggio che l’ha scandita. Figura dopo figura, atto dopo atto, fino al rispecchiamento finale e all’accettazione di quella ragazza, lavoratrice, madre, antenata nel dolore.

Scomazzon sgrezza con piglio chirurgico, a tratti crudele, il luogo comune che fonda il suo essere orfana, e ne trae luce spalancando pubblicamente la coltre di silenzio che aveva fatto ombra fino a quel punto nella sua stessa consapevolezza. Nel suo Austerlitz Winfried Sebald scriveva: «Nessuno può spiegare esattamente che cosa succede in noi quando si spalanca la porta dietro cui sono celati i terrori dell’infanzia». Tranne chi quella porta, un giorno, ha spalancato davvero.

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