Una delle figure più evanescenti dei vangeli è quella di Giuseppe, che si riteneva fosse il padre di Gesù, come annota Luca nella genealogia di Cristo. Si tratta dunque di un genitore apparente, il cui profilo è appena accennato. Ma proprio per questo è anche un personaggio affascinante, come suggerisce già il titolo del romanzo – L’ombra del padre – dedicatogli quasi mezzo secolo fa dal polacco Jan Dobraczyński.

Marginale, la figura di Giuseppe è però forte nell’immaginario collettivo, al punto da attrarre nella sua data liturgica del 19 marzo – in paesi di tradizione cattolica come l’Italia e la Spagna – la «festa del papà», relativamente recente e di origine profana. La ricorrenza laica si celebra infatti negli Stati Uniti dal 1910 per bilanciare la «festa della mamma», che era nata due anni prima. Festeggiato la terza domenica di giugno e diffuso poi in molti paesi, il Father’s Day con una legge firmata da Nixon nel 1972 diventa una festività ufficiale.

Soppressa invece come giorno festivo in Italia dal 1977, la ricorrenza liturgica di san Giuseppe finisce per stemperarsi come «festa del papà» dai risvolti commerciali. Le origini della festività cristiana sono ovviamente molto più antiche. Nei calendari il padre di Gesù è ricordato in giorni diversi, e la data del 19 marzo si trova già alcuni testi del IX secolo.

Storia di una devozione 

Ma la piena accettazione di Giuseppe nella cultura popolare dell’occidente medievale è stata difficile, come ha ricostruito Paul Payan. La credenza antica della verginità di Maria suggerisce all’arte di rappresentarlo avanti negli anni, sempre subalterno a Maria e a Gesù. Arrivando a raffigurarlo non solo come falegname, ma impegnato anche in lavori domestici, persino a lavare e stendere i panni: un esempio molto apprezzato nei tempi più recenti.

Padre speciale anche in questi compiti inediti e custode di una famiglia eccezionale, Giuseppe è un modello di umiltà diffuso dai francescani, che chiamano custodi i superiori dei loro conventi. Ma sotto un altro aspetto, morto presumibilmente prima della predicazione di Gesù, è anche l’ultimo degli ebrei, non di rado dipinto nel tardo medioevo con i segni distintivi loro imposti nella realtà.

La devozione si diffonde poi in età moderna, con la festa di precetto decretata nel 1621. Poi, nel 1870, san Giuseppe viene dichiarato da Pio IX patrono della chiesa cattolica, quindi patrono dei lavoratori da papa Pacelli nel 1955 – in evidente funzione anticomunista – e nel 1989 è descritto appunto come «custode del redentore» da Giovanni Paolo II.

Bergoglio nel 2020 lo celebra nel documento Patris corde come «l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta». Spesso il papa ha dichiarato di pregarlo ogni giorno e di essergli devoto, tanto che il simbolo araldico del santo – un fiore di nardo, secondo la tradizione ispanica – figura nel suo stemma, insieme al sole dove campeggia il monogramma del nome di Gesù e alla stella che rappresenta Maria.

Nei vangeli 

Vittore Carpaccio, 1500-1510, Fuga in Egitto (immagine Wikimedia)

La presenza di Giuseppe nei vangeli è concentrata nei primi due capitoli secondo Matteo e secondo Luca, cioè nei racconti della nascita e dell’infanzia di Cristo, molto diversi tra loro: i due evangelisti mettono in rilievo rispettivamente la figura di Giuseppe e quella di Maria. Semplificando questioni dibattute fin dall’antichità, si potrebbe dire che esprimano i punti di vista, complementari, dei genitori di Gesù. Per entrambi gli evangelisti, che pure riportano genealogie quasi del tutto differenti, Giuseppe è della stirpe reale di Davide. Ma non parla mai, e affronta avvenimenti inattesi nel silenzio.

Nel racconto di Matteo è l’uomo dei sogni, come l’omonimo patriarca figlio di Giacobbe la cui lunga storia chiude il libro della Genesi. In sogno un angelo rassicura Giuseppe, «uomo giusto» sconvolto dall’improvvisa gravidanza di Maria prima delle nozze e che, senza accusarla, vuole ripudiarla in segreto: «Il bambino che è in lei viene dallo Spirito santo».

In sogno un angelo gli ordina, nato Gesù a Betlemme, di «prendere il bambino e sua madre» e di fuggire in Egitto, dopo l’adorazione dei magi, per sottrarlo alla strage ordinata da Erode. In sogno un angelo gli dice ancora di tornare nella terra d’Israele, essendo morti ormai «quelli che cercavano di uccidere il bambino». In sogno un angelo lo avverte infine di lasciare la Giudea, dove «regnava Archelao al posto di suo padre Erode», e la «sacra famiglia» si stabilisce a Nazaret, in Galilea.

Diversa la prospettiva di Luca, che si limita a nominare Giuseppe, originario di Nazaret e che per un censimento deve salire a Betlemme, sui monti della Giudea. Qui accoglie con Maria la visita dei pastori venuti ad adorare il salvatore. Circonciso il bimbo, con Maria lo porta al tempio di Gerusalemme, dove avviene l’incontro con Simeone, «uomo giusto e pio che aspettava la consolazione d’Israele», e con una vecchia donna, la profetessa Anna.

Infine, da Nazaret i genitori salgono ogni anno per la Pasqua a Gerusalemme, dove credono disperso il dodicenne Gesù. Dopo tre giorni lo ritrovano nel tempio a parlare con i maestri: «Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» lo rimprovera Maria. «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» ribatte il figlio. «Ma essi non compresero».

Al di fuori di questi racconti popolarissimi, Gesù nel vangelo secondo Giovanni è chiamato «figlio di Giuseppe», per due volte (1,45 e 6,42). Ma la seconda volta l’espressione ha un intento polemico nei confronti del maestro di Nazaret appena presentatosi come «il pane disceso dal cielo» mandato da Dio: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre?» osservano i suoi avversari.

Negli apocrifi

Poi, dai vangeli Giuseppe scompare. A integrare i racconti di Matteo e di Luca, illuminando la penombra che avvolge la sua figura, sono gli apocrifi, che ispirano molta arte. Con lo scopo di rafforzare appunto la precocissima credenza della nascita miracolosa del salvatore e di spiegare la reazione degli abitanti di Nazaret narrata dal vangelo di Matteo (13,55-56): «Non è costui il figlio del falegname? E sua madre non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi?».

Secondo diversi apocrifi Giuseppe, ormai vecchio, è presentato come vedovo, che quando sposa Maria ha già figli e figlie: i fratelli e le sorelle di Gesù menzionati dai vangeli. E nella Storia di Giuseppe falegname – probabilmente d’origine egiziana e datata nel VII secolo – largo spazio è riservato al racconto della sua morte, simile a quella degli «uomini che sono nati su questa terra».

Al capezzale del morente stanno Maria e Gesù, che nel racconto parla in prima persona e tiene le mani di Giuseppe mentre questi gli chiede di non abbandonarlo. Tradotto dal copto e dall’arabo in latino, il testo diffonde in occidente l’invocazione a san Giuseppe per una «buona morte».

Con un sorprendente paragone papa Montini parla nel 1966 di san Giuseppe come di una «lampada domestica, che diffonde lume modesto e tranquillo, ma provvido ed intimo, e fuga l’oscurità della notte, invitando alla veglia pensosa e laboriosa, conforta il tedio del silenzio e il timore della solitudine, vince il peso della stanchezza e del sonno, e sembra discorrere con voce piana e sicura dell’alba che verrà».

L’intervista di Ratzinger

Ma l’ultimo a ragionare su san Giuseppe è stato Joseph Ratzinger, che in un’intervista del 2021 con la Tagespost ha citato «uno dei canti natalizi tedeschi più conosciuti e belli» dove Gesù è presentato «come una rosellina (Röslein) donataci alla Vergine Maria nella notte santa». All’inizio di questo canto di Natale si parla però di una rosa (Ros) e il papa emerito spiega con finezza filologica (e teologica) lo slittamento lessicale: «La mia personale supposizione è che in origine non ci fosse la parola Ros, ma Reis, cioè germoglio», e l’allusione è alla profezia messianica di Isaia (11,1), perché «un germoglio spunterà dal tronco di Iesse», capostipite della dinastia di Davide.

Patrono del papà e del figlio minore, in casa Ratzinger il santo veniva molto festeggiato: «Si beveva caffè da macinare, che mio padre amava molto, ma che normalmente non potevamo permetterci. Infine a tavola c’era sempre una primula come segno della primavera che san Giuseppe porta con sé.

E per finire la mamma preparava una torta con glassa che esprimeva compiutamente la straordinarietà della festa». Che Benedetto XVI, un anno e mezzo prima della sua «buona morte», ricordava ancora

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