C’è questo tizio che va dal medico perché non si sente tanto bene. Il medico lo visita e gli dice che non gli pare ci siano problemi particolari, ma per sicurezza faranno degli esami. La settimana dopo il tizio ritorna dal medico per sapere come sono andati.

«Ma no, guardi… Tutto a posto. Certo, l’età comincia a farsi sentire. C’è qualche valore un po’ al limite. Forse un po’ di dieta… Tagliare l’alcool, i caffè… Un po’ di sport, anche, facciamo tutti una vita troppo sedentaria. Ma nell’insieme niente di preoccupante, direi… Però senta, mi scusi se glielo dico ma questo sì, lei deve smettere di masturbarsi».

«E perché!?».

«Ma perché la sto visitando!».

E adesso che ho la vostra attenzione…

La barzelletta è il grado zero della comicità verbale. Di solito è breve o anche brevissima (e allora può prendere la forma della freddura), e di solito non fa granché ridere se non viene raccontata ad alta voce da qualcuno che, come si dice, la sa raccontare: anche la mediocre barzelletta che abbiamo appena letto, se raccontata bene, con le pause e le facce giuste, può funzionare. Raccolte di barzellette ce ne sono un mucchio, in volume e adesso nei video su YouTube, e si capisce perché: sono un genere facile, di effetto istantaneo, non appartengono a nessuno, non hanno copyright, non costano niente a chi le raccoglie. Il libro delle barzellette di Totti, che ha avuto un miliardo di ristampe, non lo aveva scritto Totti, le barzellette le hanno raccolte e riscritte gli ideatori Beppe Cottafavi e Marco Giusti, i soldi li hanno presi un po’ i raccoglitori e un bel po’ Mondadori e ancora di più in beneficenza.

Stessa cosa per le raccolte di battute, tipo le Formiche di Gino & Michele o le cose di Spinoza.it. Solo che le raccolte di barzellette o di battute stancano prestissimo, sono libri o meglio non-libri da gabinetto che una volta finiti si guardano quasi con vergogna, finiscono ad arredare le librerie mezze marce delle case estive, e funzionano solo a metà appunto perché leggere le barzellette non basta, bisognerebbe ascoltarle.

Raccolte di “cose che fanno ridere” dove cose = racconti o saggi o articoli più lunghi di una pagina in cui l’effetto comico non nasce dalla battuta finale ma, diciamo, si forma e cresce nel corso della scrittura – raccolte del genere sono invece abbastanza rare fondamentalmente per due motivi:

(1) perché in questo caso i diritti d’autore bisogna pagarli; ma prima, e soprattutto,

(2) perché racconti o saggi o articoli ecc. che fanno ridere, o almeno sorridere, non sono tanto facili da trovare tra l’altro perché

(a) far ridere o anche solo sorridere per iscritto e in forma distesa è difficilissimo.

(b) il comico invecchia rapidamente, molto più rapidamente del tragico, forse perché più legato al contingente, e così si finisce per dover escludere dalla raccolta pezzi e autori anche blasonati, e però legati a un modo di ridere che non è più il nostro (Campanile, per esempio), e insomma a restringere la scelta agli iper-contemporanei bravi, che non sono tanti;

(c) perché l’Italia (stiamo parlando di cose italiane) è un paese che ha prodotto tantissima comicità a teatro, al cinema, in televisione, ma in cui invece chi prende la penna in mano per “fare letteratura” o “fare saggistica” crede quasi sempre di dover enunciare concetti profondi e serissimi, e che atteggiare le labbra al sorriso sia, per uno scrittore o anche solo per uno scrivente, una strategia suicida, perché nessuno mai lo prenderà sul serio, anzi lo si tratterà con un certo sospetto. Lo ha detto bene una volta Enrico Vaime parlando di Flaiano (il video si trova su YouTube): «Io non sopporto i moralismi, di nessun genere… E Flaiano era il contrario di qualsiasi moralismo… È chiaro che si può giudicare in maniera molto cruda e crudele, anche. Un uomo… Qualcuno può dire anche superficiale – non era vero – ma lo può dire. Un uomo che cerca di sfuggire alle proprie responsabilità: e be’, e non fa bene?». Di qui una certa povertà nel campo della letteratura umoristica, a paragone per esempio di ciò che si trova nel mondo anglosassone sia di ieri (loro avevano Twain, noi negli stessi anni Verga, al massimo Collodi) sia di oggi (loro hanno Bennett, Sedaris, ma anche tanti narratori seri che sanno e vogliono far sorridere, come Amis, Updike eccetera); e di qui anche il trombonismo come componente primaria del carattere nazionale, ossia la tendenza a pensare che fare la faccia seria sia il primo requisito per il successo, per un successo giusto, morale, e che davanti alle tante cose tragiche che succedono nel mondo, alla tragedia che è in fondo la vita stessa, sia di cattivo gusto ridere.

La malattia della seriosità o trombonismo colpisce soprattutto i giovani. «Come tutti i giovani – ha detto Corrado Guzzanti a Gianmaria Tammaro (La Stampa, 16 gennaio 2022) – volevo scrivere cose serie e profonde. Proprio in quel momento è cominciata la mia carriera. Mi prendevo in giro, facevo la parodia di questi testi serissimi». Parafrasando Busi: che resta di tutta la seriosità che abbiamo creduto di dover mettere in scena da giovani? Niente, neppure una reminiscenza... Crescendo, si capisce che ciò che si voleva non era salvare il mondo ma essere presi sul serio, e che al fondo di quell’atteggiamento c’erano insicurezza e vanità, o quella brutta piega del carattere che in inglese si chiama self-righteousness (manca l’equivalente in italiano: essi non lo sanno, ma lo fanno). A volte da queste malattie si guarisce, a volte no. E i non guariti, questi attempati coglioni col ditino perennemente alzato a indicare la verità e la via, sono tra gli esseri umani peggiori che possa capitare d’incrociare sui giornali o in TV o, tipicamente, in un consiglio di dipartimento.

Inoltre, la malattia colpisce più a sinistra che a destra, perché a sinistra si è più sensibili ai mali del mondo, e più ansiosi di risolverli, mentre a destra si è più disincantati, scettici, pessimisti circa l’agire umano, e spesso anche semplicemente più inclini a fottersene. Si spiegano così dichiarazioni reboanti come questa che dobbiamo a uno dei professionisti della mutria, Franco Fortini: «Gli imbecilli dissacrino, e il loro mestiere. Capire che il riso comporta un grado elevato di complicità con il potere e l’ideologia dominanti, non è facile da concedere, ne convengo. Che il riso non castighi i costumi ma li confermi, è duro da ammettere. Ma e cosi. Il riso vale come critica solo se si aggiunge a una critica che non ride. Non può sostituirla. Debbo sapere che la tirannide è tragica. Solo quando ciò è ben chiaro, come in Shakespeare o in Beckett, allora posso permettermi di fare entrare i clowns».

Roba da chiodi, a rileggerla adesso. Ma perché no del resto? Se si è convinti che nel mondo si stia combattendo una guerra tra il Capitale e la Civiltà, e che il compito degli intellettuali non sia quello di osservare la realtà e descriverla nel modo più intelligente e obiettivo ma quello di mettersi al servizio di scopi più alti, e di eliminare chi si mette di mezzo (infatti, sempre Fortini: «Uomini ci sono che debbono essere uccisi») – se questa è la convinzione, con che coraggio ci si può permettere di sorridere, o peggio di ridere? Conversando con Philip Roth, Kundera ha detto una volta di aver scoperto il valore dell’umorismo negli anni di Stalin: «Avevo vent’anni, e riuscivo sempre a riconoscere le persone che non erano staliniste, le persone che non dovevo temere, dal modo in cui sorridevano. Il senso dell’umorismo era un segno di riconoscimento affidabile. Da allora mi terrorizza un mondo che sta perdendo il suo senso dell’umorismo». E simmetricamente: se si è convinti che la vita sia una continua battaglia tra il Bene e il Male, e che l’inferno aspetti i peccatori, quale pazienza si può avere con la dissacrazione del riso? Per chiunque sente di incarnare un ideale o una missione, l’umorismo è come la kryptonite per Superman: screditando l’Ideale, o almeno il modo in cui lo si persegue, scredita anche il missionario, demistifica la sua vanità.

Invece aveva ragione Flaiano: sempre, ma in particolare quando parlava appunto della tromboneria ovvero della renitenza all’umorismo degli italiani, lamentandosene con Arbasino (un suo-nostro alleato): «Tutto viene preso sul serio, in questo benedetto paese, eccetto le cose serie»; e proponendo questa desolata strategia di resistenza: «Vado verso una specie di solitudine scandinava, evitando di leggere i giornali, sforzandomi di credermi uno straniero: in modo di trovare non dico piacevole ma anche stimolante il mio soggiorno in questo paese caratteristico» (Alberto Arbasino, Ritratti italiani, Milano, Adelphi 2014, p. 239).

Così a un certo punto della vita adulta bisogna fare una scelta e decidere da che parte stare. C’è la parte di Flaiano, che pensava che la cosa più importante fosse sorridere e far sorridere, senza pronunciare proclami, elaborare visioni del mondo, firmare manifesti; e c’è la parte di Fortini, che – come Jorge da Burgos nel Nome della rosa – pensava che con tutto il male che c’è nel mondo ridere è nella migliore delle ipotesi una leggerezza e nella peggiore un crimine, o la complicità in un crimine.

Qui si sta con Flaiano, anche solo per sedersi una volta tanto davvero dalla parte del torto. Qui significa in un’antologia, in un progetto di antologia che raccolga le “cose che fanno ridere” scritte in Italia diciamo nell’ultimo quarto di secolo. Non barzellette, dunque, non battute (niente Totti, niente Formiche), ma neanche monologhi da cabaret o pezzi di sceneggiature. Tutto il resto sì. E dunque ci si domanda: chi mettere in questo canone? Chi riesce a far ridere o sorridere, tra gli scriventi attuali? La domanda vorremmo girarla al lettore informato: se avete suggerimenti per favore mandateceli, ci trovate in rete. A noi – in questa avventura dell’antologia siamo in due, l’altra è Federica Mazzocchi – è sembrato non di dover fare delle classifiche ma di indicare dei filoni, dei modi.

Un modo (1) è semplicemente Raccontare la propria vita, però curvandola verso il grottesco, la farsa, laddove lo scrivente italiano medio pensa alla sua vita come a un dramma o a un libro dell’Eneide, o a un romanzo di formazione, o a una commedia romantica: sempre un gradino sopra la verità effettuale della cosa, mai un gradino sotto o di lato. Il meglio, in questo sottogenere, è forse Lo sbiancamento dell’anima di Rocco Tanica (Mondadori 2019), che ha avuto l’inventiva e la pazienza di raccontare tutta la sua vita spezzettandola in episodi, e passando al filtro dell’ironia persino i fallimenti, persino i lutti, anzi soprattutto quelli (o meglio, non proprio tutta la vita, la prima parte: è forse all’orizzonte un secondo volume, tipo Wilhelm Meister). Ma ci sono pezzi recenti di scrittura comica più occasionali ma altrettanto azzeccati nel tono, e noi penseremmo di mettere nell’antologia per esempio Una settimana da Immuni, il personal essay in cui a inizio pandemia Chiara Galeazzi ha raccontato le sue avventure con la famigerata app sanitaria. Anche Guia Soncini, strenua biografa di sé stessa, potrebbe entrare in questa categoria; ma lei potrebbe anche stare nella categoria.

(2) Prendere per il culo la gente. Ci sarebbero i tweet con cui da anni risponde agli italiani più tonti, che letti di seguito formerebbero una chilometrica cronaca dell’idiozia e del disagio contemporanei (ma intanto si prenda nota. È un genere letterario nuovo, va studiato, si organizzino seminari); ma non si può, perché sono testi brevissimi, perciò vireremmo su un pezzo di La Repubblica dei cuochi, o su altro (c’è amplissima scelta tra le sue cose per Linkiesta e altri giornali, per esempio Il problema dell’Italia con il pop). Stessa categoria, con bersaglio più preciso, individuato: Come fu temprato il vino di D’Alema di Michele Masneri, o, sempre di Masneri, qualche cronaca mondana tipo Premio Strega, o un reportage da qualche terrazza romana.

Per il (3) Comico di fantasia nel più largo dei sensi – quello che ci piace di più: nessuna implicazione col reale, nessuna intenzione di svelare o criticare alcunché, men che meno di denunciare: solo divertimento, solo surrealtà – potremmo mettere un pezzo di Frassica dal Libro di Sani Gesualdi, anche se sfora un po’ dalla cronologia che ci siamo dati; pensavamo anzi di risalire ancora più indietro, agli anni Settanta di Cochi e Renato, ma ci pare che i loro sketch funzionino sulla scena, mentre letti sulla pagina reggono meno bene (e lo stesso vale per altri discreti o bravi o anche ottimi comici o monologhisti come Teocoli, Bisio, Paolo Rossi, Gnocchi, Migone e altri del club Zelig-Colorado; o per Zalone). E forse lo stesso problema hanno le cose – splendide, si sa – di Corrado Guzzanti (le poesie di Brunello Robertetti, allora? Ma avevamo detto solo prosa…); e anche Luttazzi. Ma mettiamo senz’altro un racconto preso da Era meglio il libro di Valerio Lundini (supremo in video o a teatro o alla radio, ma bravo anche sulla pagina), forse Perdonami, mi ripeti il nome?; e soprattutto mettiamo quello che a noi pare il migliore scrittore comico italiano, cioè Alessandro Gori alias Lo Sgargabonzi: c’è ampia scelta, ma per ora siamo orientati su E addirittura ripassano più volte (cronaca del primo viaggio in Frecciarossa di un provinciale inattrezzato) o su Anna Frank 2000 (una pagina ritrovata, assai spiazzante, del Diario di Anna Frank), o su I gelati sono buoni, nel libro nuovo Confessioni di una coppia scambista al figlio morente.

Nella categoria (4) Comico mimetico (prendere uno stile e ingigantirne le peculiarità fino a renderle ridicole) pensiamo di mettere per esempio la Lettera commerciale (in Superwoobinda) in cui Aldo Nove scimmiotta la langue de bois della pubblicità e del marketing (per la morte di Fellini un’azienda particolarmente efferata mette in commercio una «linea di bocce di Fellini morto con la neve», e spiega ai distributori: «L’infelice calvario del Maestro è il motivo che abbiamo scelto per immettere linfa vitale in un mercato, quello delle bocce di neve, ormai in crisi»). Qui dentro forse anche Bergonzoni, Rezza – o altrove?

Nella categoria (5) Satira degli intellettuali, a noi cara perché ci riguarda, mettiamo Citare a vanvera di Guido Vitiello, che commenta una recensione a un film così gonfia di citazioni, allusioni, strizzate d’occhio al lettore colto da risultare quasi inintelligibile: prosa atroce (quella dell’intellettuale citazionista, non quella di Vitiello), ma ben rappresentativa del cattivo stile accademico che dilaga anche sulle pagine dei giornali. E mettiamo il ritratto dello psicologo Recalcati fatto qualche anno fa da Andrea Minuz (mentre merita una menzione onorevole, ma non è abbastanza comico, il ritratto di Gianni Vattimo scritto da Maria Turchetto in Carognate cazzate e consigli).

Niente satira politica, che ci pare vitanda (o forse qualcosa da Invano di Filippo Ceccarelli?). Ma Critica dei costumi (6), dei modi di vita sì. Su registri molto diversi, per esempio: qualcosa di mondano di Natalia Aspesi (forse il capitoletto È il clitoride nemico dell’uomo? in Lui! Visto da Lei), qualcosa di anti-mondano di Francesco Pecoraro (forse La Tavolata forse altro); qualcosa di Michele Serra (che però ovviamente starebbe bene anche nel Comico mimetico, magari pescando dai 44 falsi); il monologo Perfetta di Mattia Torre. Metteremmo volentieri anche l’ultimo ritratto compreso nella raccolta Siete persone cattive di Edoardo Ferrario, quello dedicato all’orribile Organizzatore di Eventi Fabrizio Pappagallo. Nella stessa categoria, più indietro nel tempo ma non troppo (fine anni Novanta), metteremmo Tommaso Labranca, qualcosa da Neoproletariato o da Chaltron Hescon, o da tutti e due i libri (l’esegesi di Prospettiva Nevskij di Battiato, a rileggerla adesso, non è bella come uno se la ricordava, mentre l’ironia sui consumi dei neoproletari non ha perso smalto né verità).

E andremmo anche più indietro, soprattutto per mettere Camilla Cederna, che era una ineguagliabile osservatrice dei costumi, ma ci siamo dati dei limiti cronologici, la Cederna era dell’11.

Ecco. Sembra un po’ troppo la lista dei collaboratori del Foglio; ma è perché per ridere delle cose bisogna essere vecchi, o senili, e non farsi troppe illusioni sull’umanità, e forse aiuta anche essere un po’ stronzi.

Più maschi che femmine, ma non è il caso di farla lunga, perché questa non-questione è già stata seppellita a suo tempo da Franca Valeri: «La comicità al femminile è un’espressione balorda favorita e messa in giro dai mass media con la loro tipica caducità invecchiata senza sparire. Noi siamo pieni di questi rifiuti da vocabolario che ci rimangono sui pianerottoli insieme alle scatolette e alle bottiglie. La realtà è che la comicità è un dono astratto, indefinibile e come tale asessuato che chi l’ha avuta l’ha avuta e la maggior parte della gente no».

Infine, non sapremmo in che categoria mettere Domenico Raffaele, alias DJ Angelo, che fa la trasmissione Ciao belli a Radio Deejay da tanti anni. Non sappiamo nemmeno se possiamo inserirlo nell’antologia, perché non pubblica libri e non mette i testi dei suoi sketch in rete. E chissà poi se funzionerebbero sulla pagina. Ma ci piacerebbe in qualche modo onorare il suo genio un po’ misconosciuto.

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