Chi l’avrebbe detto, qualche anno fa, che al centro di un dibattito politico sarebbe finita una vocale. Per giunta, una vocale che descrive una non-vocalità: lo schwa si produce nel completo rilassamento di labbra, lingua e mascella, senza uno straccio di accento.

L’italiano è una lingua tendenzialmente conservatrice, che deve parte della sua bellezza alla sua inflessibilità, al suo essere refrattaria ad assorbire i cambiamenti sociali (il che rende la sperimentazione di uno scrittore una sfida appassionante). Per intenderci, nello spettro che descrive la disponibilità di una lingua ad assorbire tali cambiamenti, l’italiano starebbe a metà strada tra l’inglese – una lingua liquida, che si evolve contemporaneamente agli smottamenti culturali che la attraversano – e l’islandese, che per ragioni di isolamento storico-geografico è ancora così simile ai suoi esordi vichinghi che un islandese di cultura medio-bassa può leggere le antiche saghe senza sforzo.

E insomma, l’intrigante opacità dell’italiano è stata sfidata dal fantomatico schwa: questa vocale neutra, che è il suono più comune nella lingua inglese e quello più difficile da apprendere per un non anglofono, è stata proposta per neutralizzare l’espressione del genere. È un’idea creativa ma soprattutto importante.

 necessario infatti che ogni lingua si adatti alla società che la parla, all’ampliarsi del suo sguardo sulle complessità dell’identità, anche colmando le lacune che ancora la politica retrograda di questo paese lascia incolmate come certi fossi nelle nostre strade: se non è ancora il governo a concedere certi diritti umani fondamentali (ad esempio, l’Italia è attualmente l’unico paese dell’Europa occidentale a non consentire il matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso) è nobile e necessario che sia la lingua a portarsi avanti. Wittgenstein ci ha insegnato che i limiti del linguaggio sono i limiti del nostro mondo, dunque, integrando nel linguaggio una possibilità espressiva nuova, il nostro mondo italiano ancora così angusto si estenderebbe verso nuove prospettive di civiltà.

La minaccia di cambiare

Non sorprende che i detrattori dello schwa siano più numerosi dei suoi sostenitori: qualunque cambiamento è percepito, in Italia, come una minaccia. L’accademia della Crusca ha definito lo schwa «inaccettabile»: «Non esistendo nel repertorio dell’italiano standard», argomenta il linguista Paolo D’Achille, «non vediamo alcun motivo per introdurlo». Eppure lo schwa è nato proprio per descrivere qualcosa di ineffabile, di non appartenente alla grammatica tradizionale: questa innocua vocale fantasma fu utilizzata per la prima volta da Johann Schmeller nel 1821 per descrivere nel suo libro un particolare suono del dialetto parlato nella Germania bavarese.

Prima di chiamarsi “schwa” (dal 1895), venne chiamata poeticamente “vocale mormorante”, “vocale indeterminata”, “vocale naturale”, “vocale oscura”. Ma cosa avrà mai di tanto oscuro da essere percepita da certi linguisti come una minaccia? Sarà forse che dietro la sua oscurità si nasconde un’altra oscurità, quella del vizio di non voler cambiare, di aggrapparsi a un vecchio mondo nitido e riconoscibile, in cui si ragiona per opposti, in bianco e nero? Cos’è, per gli italiani, davvero “inaccettabile”: introdurre una vocale che ci metterebbe al passo con le possibilità espressive di altre lingue o introdurre i diritti umani che ci metterebbero al passo con altri paesi?

L’equivalente in Inghilterra e America dello schwa, il they/them (loro) utilizzato per i pronomi specifici in via opzionale, non ha suscitato alcuna controversia: primo, perché la lingua inglese stessa contempla un’idea di neutralità, anche nei pronomi, e il they/them veniva già utilizzato nel caso non si desiderasse specificare, e secondo perché il rapporto degli anglofoni con la loro lingua è molto diverso: è più paritario, ci si sente in diritto di plasmare la lingua, e infatti storicamente l’appropriazione di certe parole è stata strumento di lotte politiche fondamentali (vedi quelle degli afroamericani).

Lingua gerarchica

Il nostro rapporto con la lingua è opposto. La viviamo come un’imposizione, un’istituzione gerarchica sulla cui vetta esistono pur in via ufficiosa l’italiano romano (benché uno dei più contaminati) e i diversi italiani del nord Italia, e in basso gli italiani del sud. Naturalmente si tratta di una discriminante distorsione socio-economica, e come tale non ha ragione di alimentare nessun fanatismo linguistico.

Se alcuni detrattori insistono sul fatto che lo schwa sia inesistente nel parlato, dimenticano che esiste eccome, in alcuni dialetti meridionali (pensate al napoletano). Si tratta dunque di dove poggiare lo sguardo. Si tratta di superare i razzismi socio-linguistici e stare al passo con le evoluzioni culturali nazionali e internazionali. Anche l’edizione 2022 del dizionario Devoto Oli cambierà le definizioni di “uomo” e “donna” secondo ciò che, finalmente, è slegato da imposizioni socio-biologiche. Poiché, come giustamente dice all’Ansa il linguista Luca Serianni: «Il dizionario non è solo una rassegna utile di parole e definizioni particolari o difficili, ma la foto di un certo momento linguistico e quindi in certe fasi riflette il mutato senso di alcuni termini».

Un’altra cosa che i detrattori dello schwa dimenticano è che l’Italia fa parte del mondo, e dunque la sua cultura può sopravvivere solo nel confronto con le altre nazioni. Prendiamo l’esempio della letteratura: la traduzione di testi che non specificano volutamente il genere impone attualmente al traduttore di sceglierlo, violentando il testo. Questa violenza non è auspicabile e soprattutto non è necessaria. Recentemente la casa editrice effequ ha adottato lo schwa per tradurre il todes di un’autrice brasiliana, Marcia Tiburi, nel suo Il contrario della solitudine: poiché il todes non esiste nella lingua di partenza, non è lecito obliterarlo, in italiano, in un maschile generalizzato. Si tratta infatti dell’abc del lavoro di un traduttore, e di una casa editrice, restituire il testo nel modo più onesto possibile, altrimenti si rischia una distorsione simile a una censura.

Insignificante

Il motivo per cui l’esperanto, progettato come lingua comune, non prese mai piede, è che non esiste lingua che possa sopravvivere slegata dalla sua società.

La nostra, finalmente, lentamente, si sta divincolando dalle norme di genere: non si tratta solo di un problema di rappresentazione delle persone queer, è una questione già sollevata dai femminismi, e che risulta urgente nella nostra epoca in cui le identità, così filtrate e fluidificate dalla rappresentazione dei media, hanno bisogno di parole adatte a contenerle, altrimenti si rischia di abitare un mondo che esonda dal suo linguaggio, e come tale destinato a sfuggirci.

I detrattori del povero schwa, questa letterina capovolta che non vuole imporci altro che la sua discreta neutralità, si accaniscono sul dito anziché sulla luna, sulla vocale anziché sul problema. La parola “schwa”, dall’ebraico (shewa), significa “insignificante”: non occorre darle significato, come fanno i detrattori, bensì occuparsi criticamente del significato di cui si fa strumento. Scriveva Zhuangzi, filosofo cinese del quarto secolo a.C: «Le parole sono solo trappole per pesci, prendi il pesce, dimentica la trappola».

Dovremmo tutti impegnarci a occuparci dei nostri pesci guizzanti, della nostra società in mutamento, e non di ciò che tenta di tenerla imbrigliata. A proposito: esiste anche una rivista di linguistica chiamata Swa Fire: magari dandole uno sguardo la paura per questa graziosa E capovolta e un po’ infuocata diminuirà.

 

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