Quando ho visto per la prima volta il trailer della serie Searching for Italy su Cnn, la docuserie con l’attore italoamericano Stanley Tucci protagonista di un viaggio gastronomico per le regioni italiane, confesso di aver avuto un moto di insofferenza preventivo: di nuovo la rappresentazione dell’Italia attraverso la cucina. Ancora un americano che viene a raccontarci il nostro paese assaggiando tutti i tipi di pasta, la mozzarella fresca, con una tazzina da espresso in mano e come sfondo una piazza assolata. Ancora uno che sfrutta la furba e per niente originale idea di un documentario pseudo antropologico sul cibo come elemento culturale per farsi pagare un tour nei migliori ristoranti del mondo.

Eppure, vuoi la simpatia per l’attore, di cui avevo amato Big Night (film del 1996 sempre a tema di cui Tucci è sia regista che interprete, la storia di due fratelli abruzzesi emigrati sulla east coast che lottano per la sopravvivenza del loro ristorante sofisticato attaccato dalla concorrenza sleale della mafia italoamericana a base di fettuccini Alfredo e spaghetti meatballs) vuoi la curiosità di vedere come se l’era cavata coi luoghi comuni, ho visto la prima puntata, andata in onda su Cnn a fine febbraio e da allora e per le successive cinque settimane la domenica sera è stata consacrata alla visione di Searching for Italy (rigorosamente a stomaco pieno, per non morire di desiderio).

La prima puntata era dedicata a Napoli e alla costiera amalfitana, poi ci sono state Roma e il Lazio, Bologna e l’Emilia Romagna, Milano e lago di Como, la Toscana con Firenze e Livorno e infine la Sicilia, che ci ha lasciati con la giusta acquolina per volerne ancora. Infatti dopo il successo della prima, una seconda stagione è già prevista. Credevo che la trasmissione fosse principalmente una fissa mia e degli altri italiani espatriati negli Stati Uniti, fino a che la sera di Pasqua a grande richiesta è andata in onda su Cnn tutta la stagione in una sola serata e su qualche numero fa del New Yorker gli hanno dedicato tre pagine sugli Annals of Gastronomy, in cui la giornalista Helen Rosner fa una lode sperticata della trasmissione dicendo in sintesi: l’Italia è meravigliosa, il cibo italiano è meraviglioso, e coerentemente pure Tucci è meraviglioso, non lesinando complimenti sulla forma smagliante dell’attore, che «A sessant’anni si è reinventato una carriera tardiva come sex symbol». A parte l’innegabile fascino di Tucci che si improvvisa nel ruolo con eleganza, simpatia e gentilezza, curioso senza essere invadente, discreto nelle cucine professionali in cui si intrufola («Entrare dove lavora uno chef – dice Tucci in un’intervista – è come salire sul palco mentre lo spettacolo va in scena»), la docuserie è molto ben fatta ed è riuscitissima per due motivi: non ha molto da invidiare all’intrattenimento intelligente a cui ci avevano abituato i viaggi gastronomici di Anthony Bourdain per esempio, e soprattutto tocca tutte le corde sensibili in questo periodo pandemico, in cui ci mancano i viaggi, i ristoranti, le cene con gli amici, la convivialità.

Contrasti

Ogni puntata è costruita su contrasti che servono a dare del luogo che viene descritto un’idea il meno possibile stereotipata pur ricorrendo all’inevitabile trattamento dei classici. C’è sempre un’alternanza tra il tradizionale e il contemporaneo, tra il professionale e il casalingo, il ricco e il povero, il rurale e il cosmopolita, il puro disimpegno e la politica (e l’inglese e l’italiano, imperdibile la traduzione di come sono nati gli strozzapreti, i priestchockers).

Così a Napoli, Tucci si fa preparare la pizza dallo chef pluripremiato Enzo Coccia ma va anche a mangiare la pizza fritta al chioschetto da Fernanda, si fa accompagnare da una professoressa universitaria ma impara cosa è il caffè sospeso da un vigile urbano. Va a comprare i pomodori dal rivenditore giusto ma non evita di affrontare i problemi della città facendola sembrare un idillio di sole e pace dei sensi, racconta Scampia e il progetto di Chikù, un catering italo-balcanico messo in piedi da donne napoletane e rom nel quartiere.

C’è sempre qualcosa di politico, in ogni puntata. Scardinando ogni pregiudizio, Tucci a Roma si fa preparare la carbonara da un cuoco giapponese, e c’è un capitolo intero sulla capitale intitolato One Hundred Jails (la traduzione maccheronica di Centocelle) in cui si parla di quello che avviene oltre il centro storico, come il caso della libreria-bar La pecora elettrica che è stata incendiata due volte da gruppi neofascisti. Il tocco impegnato non manca mai, (del resto è pur sempre una produzione Cnn), così a Bologna si fa accompagnare a mangiare la mortadella da Mattia Santori che gli spiega come sono nate le sardine (so che in Italia questo passaggio è stato oggetto di pesanti critiche), intervista i volontari e gli assistiti di una cucina solidale non cattolica dove offrono ai senzatetto piatti di cappelletti fatti a mano (“ché almeno il cibo sia sano”), al lago di Como accompagna un pescatore di simpatie leghiste a pescare del persico per farci il risotto e gli fa domande su Salvini e le sue posizioni sull’immigrazione, ricevendo risposte che lo lasciano molto perplesso.

L’immigrazione è un tema che torna spesso, in quasi ogni puntata si parla di integrazione e accoglienza con un picco drammatico nella puntata dedicata alla Sicilia, dove la degustazione di squisite sarde a beccafico durante un pranzo a casa di un pescatore di Lampedusa viene interrotta dal racconto di uno dei naufragi di migranti più drammatici degli ultimi anni, in un passaggio forse troppo azzardato per una trasmissione in cui non si fa che mangiare.

La narrazione del viaggio italiano viene fuori, come abbiamo detto, anche grazie ai contrasti e alle contraddizioni, così si alternano i contesti e gli accompagnatori e Tucci, dopo essere stato a casa del pescatore, del contadino o alla mensa dei senzatetto, si ritrova a tavola con la famiglia Missoni a Milano, a mangiare tre tipi di timballo (la sua ossessione in Big Night), nel palazzo di una anziana nobildonna a Palermo servito da camerieri in livrea, sulla terrazza di Luca Bottura, con la nipote di Fellini a Rimini.

Ritrovarci

Ma la forza del programma non sono i ristoranti, né i piatti, non sono le guide più o meno prestigiose né i luoghi, non lo sono cuochi né i produttori di cibi prelibati e le loro tradizioni secolari, seppure tutti questi elementi sono i protagonisti della serie. La forza del programma è lui, il viaggiatore Tucci, con il suo corpo e la sua mimica. Ogni volta che assaggia qualcosa, Tucci trasmette una sensazione emotivamente travolgente. Si vede che il suo godimento non è simulato (oppure è un grandissimo attore porno, se vogliamo seguire l’idea del sex symbol tardivo lanciata dal New Yorker). Ogni «Oh my God», ogni «This is the best thing I’ve ever had», ogni «Buonisssimo» (con tre s), ogni «Squisito» è l’espressione quasi mistica di un uomo che sta sperimentando un piacere puro. E seguire la sua passione per il cibo, per il nostro paese che è anche un po’ suo (non solo i nonni di entrambi i genitori erano italiani, ma Tucci e la sua famiglia hanno vissuto a Firenze per un periodo quando aveva dodici anni, l’evento che lui definisce come svolta della sua vita), farsi guidare dalla sua curiosità e dal suo piacere credo che sia uno dei più grandi incentivi a seguire il programma.

Che è interessante proprio per questo, perché il disvelamento di questa Italia che noi non abbiamo bisogno di scoprire perché già la conosciamo (non è certo lui che ci fa conoscere l’aceto balsamico di Modena, la ribollita di Firenze, l’amatriciana di Roma, l’arancina di Palermo), avviene durante il viaggio di un innamorato, attraverso i cui occhi vediamo la bellezza e attraverso il cui palato assaporiamo la delizia. Ed è una sensazione bellissima, questo suo “searching” che per noi è invece un ritrovarci, un riconoscerci. Quando il viaggio passa per Roma, la città in cui ho vissuto più a lungo nella vita, in cui sono nati i miei figli, quando va al San Calisto, un bar che frequentavo, a prendere il caffè e il maritozzo con la panna, quando mangia il cacciucco a Livorno e poi in una tavolata da dodici in giardino usano i resti della zuppa per condirci una pasta cucinata al volo, io mi sono commossa. E la commozione è venuta non solo dal riconoscere posti (e pasti) lontani che mi appartengono e per i quali provo nostalgia, ma anche dal carico di struggimento che ha aggiunto questo lunghissimo anno di pandemia, in cui al rimpianto dei luoghi si è sommato quello dei tempi in cui si poteva mangiare in compagnia in grandi tavolate, andare al ristorante, viaggiare facilmente (l’Italia è diventata da un anno a questa parte un paese molto più lontano da raggiungere da oltreoceano), godersela senza troppe preoccupazioni.

Un disclaimer prima di quasi tutte le puntate avverte lo spettatore che il girato risale a epoca pre-Covid e quindi è normale che i ristoranti siano pieni, ci si abbracci, e si prendano forchettate dai piatti dei commensali per assaggiare. Quando compaiono delle mascherine (come nella puntata su Bologna) si capisce che era l’estate 2020, quella specie di spiraglio di tregua dalla pandemia in cui sembrava di essere tornati a una sorta di normalità. E tutto, ogni immagine di quei tempi e quei luoghi tocca nervi scoperti.

Saper vivere

Mentre scrivo questo pezzo sta finendo anche la giornata mondiale della carbonara, di cui ho appreso l’esistenza solo oggi. Sui social tra gli italiani è tutto un fiorire di battute, ricette, indicazioni, fotografie, sfide. Chiudo la app e mi arriva un messaggio in chat di un gruppo di amiche italiane con cui abbiamo appena fatto un ordine di olio dall’Italia. Mi viene quasi da ridere, per quanto si cerchi di smontare pregiudizi e luoghi comuni, certe verità ritornano sempre a galla: noi italiani siamo fissati con il cibo e la buona tavola, e alla fine dovremmo anche smettere di offenderci se ci viene detto che mangiare bene è per noi un’ossessione o ci chiamano mangiapasta. Forse dovremmo arrenderci al fatto che la nostra è una cultura cibocentrica e potremmo iniziare a esserne solo orgogliosi. A rivendicare il nostro saper vivere a partire dal cibo (del resto le sbagliatissime pubblicità che inframezzano le puntate della serie su Cnn – catene di hamburger e pizzerie americane che fanno consegne a domicilio – non fanno che mettere in evidenza il contrasto di civiltà, e su questo piano vinciamo a mani basse).

Non è male che gli americani abbiano di noi italiani questa idea, anche Michael Moore nel suo recente documentario Where to Invade Next dice: «Avete notato che gli italiani hanno tutti l'espressione di chi ha appena fatto l’amore?». Non è vero ma è bello riconoscersi in questa descrizione e in quella di un popolo che vive in un paese dove i sensi sono costantemente appagati dalla bellezza, dal buon gusto, dove si gioisce della convivialità, del tempo speso nei bar e nei ristoranti. Il “saper vivere” collettivo di cui abbiamo una terribile nostalgia. Tutte cose di cui abbiamo forzatamente smesso di godere e che senza retorica ci mancano moltissimo, più o meno da ogni parte del pianeta.

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