Le serie non sono film lunghi, sono “contenuti”. Se dipendi dagli algoritmi e dal mercato non puoi fare arte.

Chi ha bisogno di alibi per concedersi il guilty pleasure dell’intrattenimento in streaming può contare sulle meditazioni in forma di dialogo di analoga natura sparpagliate nell’ultima serie nobile Hbo acquisita da Sky e Now, Irma Vep di Olivier Assayas. Era fra le anteprime di lusso dell’ultimo Festival di Cannes.

Serie per cinefili

Irma Vep ha un pedigree da cinefili, e di natura squisitamente cinefila è l’ossessione che porta per la seconda volta Assayas a fare i conti con un serial muto di culto vecchio di centosette anni, Les Vampires di Louis Feuillade.

La mitologia legata a Les Vampires sfugge allo spettatore medio italiano, anche se la Cineteca di Bologna ha fatto del suo meglio per renderci edotti. In Francia Feuillade è un must nelle scuole di cinema, e l’icona femminile del Male che è Irma Vep, fasciata da una tutina di seta nera di sfrenata sensualità, ha folgorato surrealisti, dadaisti e generazioni di intellettuali dopo di loro. Molti fattori hanno contribuito a fare di quel nome, che è poi l’anagramma di vampire, un emblema di fascino e trasgressione.

La Musidora esplosa grazie a quel ruolo, col suo nome d’arte confezionato nientemeno che da Théophile Gautier, fu poi regista e produttrice in proprio, nel segno di un femminismo militante e orgoglioso.

Da cineasta che viene dalla critica, Assayas torna sui propri passi e dilata per la tv il proprio film del 1996 dallo stesso titolo. Era, già allora, un’operazione di meta-cinema, che ironizzava in controluce sulle logiche della film industry di casa sua, sulle nevrosi di un alter ego del regista interpretato da Jean-Pierre Léaud e su un’attrice vampirizzata dal suo personaggio.

Irma era Maggie Cheung, che Assayas sposò poco dopo. Non è per oziosa cocciutaggine che mi dilungo su questi retroscena. Irma Vep versione seriale altro non è che una mise en abyme dell’intero percorso, tanto autoreferenziale quanto tormentata dai cronici dilemmi dell’Autore di cinema alle prese con i nuovi parametri delle piattaforme.

L’inglese dispone di un termine brutale per indicare qualsiasi prodotto confezionato per la tv: è show. Puoi continuare a sentirti autore se stai sfornando uno show? Come per il Francois Truffaut di Effetto Notte qui il backstage conta ben più delle riprese vere e proprie e dei frammenti del muto di riferimento, Les Vampires, che abbondano. Perché il backstage è un campo di battaglia senza remissione.

René Vidal, il regista (il personaggio seriosamente comico di Vincent Macaigne mantiene lo stesso nome di Jean-Pierre Léaud nel film del 1996) si batte per la filologia dell’opera, mentre ai finanziatori preme soltanto arruolare la star protagonista (Alicia Vikander) come testimonial di una linea di profumi.

La star sogna di rifarsi una verginità nella nicchia colta dell’autorialità europea mentre la sua agente, a Los Angeles, la risospinge verso i blockbuster che l’hanno resa famosa. La più colta e rigorosa della brigata, Regina (Devon Ross) vorrebbe fare la regista, ma è inchiodata al servizio di assistente tuttofare della star. E così via, tra le macchiette estreme affidate a volti noti come Lars Eidinger (il cattivissimo di Babylon Berlin), Vincent Lacoste e Jeanne Balibar.

C’è un problema? C’è. Irma Vep ha troppa ansia di essere intelligente per risultare spiritoso quando dovrebbe, e in molte situazioni sembra la pallida copia del celebrato Dix pour Cent, che da noi era Chiami il mio agente.

Dallo splendore di Alicia Vikander, inguainata nel velluto nero che ha rimpiazzato la seta originaria di Musidora, chi fa cinema ha tutto da imparare: valorizzare un volto al naturale, senza trucco e parrucco, sullo schermo ha un effetto liberatorio. È un lusso che le nostre attrici, per dire, sbagliano a non concedersi, e non occorre avere alle spalle, come la svedese Vikander, un Oscar e il mainstream di Lara Croft.

Vegliardi rampanti 

AP

Riflettendo senza paletti sul sistema globale dell’audiovisivo, la sensazione è che i grandi vecchi guardino avanti mentre i loro epigoni meno attempati sono inchiodati sulla retromarcia.

A 82 anni Marco Bellocchio sta esplorando terreni nuovi con un entusiasmo da matricola, Paul Schrader porta quest’anno a Venezia uno scampolo di perfezione analogo al suo The Card Counter del 2021, l’ottantenne Walter Hill è tornato a onorare il western con Dead for a Dollar, di cui si dice un gran bene, quel mattacchione di Paul Verhoeven a 84 anni alterna trash e gioielli da provocatore incallito.  È un panorama di vegliardi rampanti.

Ossessione reboot

Sarà anche colpa delle piattaforme, convinte che il reboot sia quel che pretende il mercato, ma si respira un’ansia inquietante di riciclaggio del passato, come se la posta in gioco fosse offrire al cinema-che-fu una seconda occasione.

Irma Vep è ovviamente l’emblema di questa spirale, che ingloba storia del cinema e, per inerzia, frattaglie sparse di autobiografia. Ma prendiamo il caso di Surface, thriller seriale appena approdato su Apple Tv. Veronica West, che ha creato la serie, aveva già devastato High Fidelity, femminilizzando a sproposito per la tv l’eroe di Nick Hornby. Iconograficamente, Surface rinvia a Vertigo, più per quel Golden Gate incombente sulla baia di San Francisco che per vera analogia con la donna hitchcockiana che visse due volte. Ma il richiamo è voluto e strategico, “fa stile”.

È un fatto comunque che la bella Sophie (Gugu Mbatha-Raw), sopravvissuta a quello che sembra un tentato suicidio, deve rifare i conti con un’esistenza di cui nulla ricorda. In apparenza, è un’esistenza coi fiocchi: marito ganzo (Oliver Jackson-Cohen) che sembra la controfigura di Jake Gyllenhaal, casa di lusso nella Pacific Heights degli happy few. Benedetta da tanta grazia, perché avrebbe cercato di annegare? A guastare la suspense c’è la memoria dello spettatore, che a differenza di quella di Sophie è ben desta. Il plot ricalca quello di un discreto thriller di Rowan Joffé del 2014, Before I go to Sleep, con Nicole Kidman e Colin Firth, tratto da un altrettanto discreto romanzo di S.J. Watson, Non ti addormentare. Questo frugare nei vecchi bauli mette malinconia. Indietro tutta, per dirla con Renzo Arbore, sembra essere la nuova mission: rivisitare banalizzando.

La tecnica di restyling del passato è comunque, inesorabilmente, uguale per tutti i riciclatori: basta una zampata di relazione lesbo per rinfrescare il materiale. Sarebbe cosa sana e meritoria, se non fosse diventato uno standard. Fateci caso: è come un rampino d’abbordaggio al presente per gli sceneggiatori, da pirateria seriale di ritorno al futuro.

Rivisitare senza deludere 

APN

Non è un derby comunque, sia chiaro. Non è che la partita dell’entertainment si giochi tra vecchi e meno vecchi, a sguardo invertito. Chi lascerà il divano di casa per tornare in sala, dal 24 agosto potrà godersi l’ultimo David Cronenberg di Crimes of the Future e constatare che alla soglia degli ottanta si può rimestare nella propria materia estrema di sempre senza inventare nulla ma senza deludere.

Per agganciarsi all’attualità, il Maestro canadese non deve fare altro che sviluppare il tema cardine del suo remoto secondo film dallo stesso titolo, anno di grazia 1970. L’inarrestabile degrado dell’ambiente costringe la specie umana a mutazioni fisiche controllate da un Ufficio di registro degli organi. L’arte d’avanguardia di Saul Tenser (Viggo Mortensen, che torna con Cronenberg per la quarta volta) consiste nell’estrazione e nell’esposizione dei propri tumori tatuati, in costante proliferazione. La chirurgia è il momento della performance, l’estrazione della poesia - “la bellezza interiore” - dai corpi degradati. Questo godimento, non altro, ci riserva il futuro.

A Cannes non siamo stati in moltissimi ad amare questo film. Ma è sommamente improbabile, sia detto a suo merito, che possa diventare una serie tv. E soprattutto mi consente di mettere in dubbio quanto ho scritto finora. Per chi non si sente portatore di verità, è un discreto sollievo.

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