Sul telefono ho un’app che calcola le ore passate davanti alla televisione, e una stima approssimativa basata sui programmi che ho catalogato mi informa che ho trascorso sei mesi della mia vita a guardare serie tv. Il numero è sconcertante. Quante cose potevo fare in quei sei mesi? Mi sarebbero bastati per imparare il cinese? O per leggere tutti i classici che fingo di aver letto? O per mettere a punto la tecnica per farmi le trecce olandesi? Fra l’altro si tratta di una cifra molto ottimista, arrotondata per difetto, perché non tiene conto dei programmi su spose, obesi o spose obese che ho consumato negli anni alimentando il disprezzo per me stessa, ma sopratutto non comprende i miei numerosi rewatch.

Ho questa malattia: riguardo un sacco di cose. Alcune le riguardo così spesso che scatta l’allarme del disturbo ossessivo compulsivo. La mia vita è un flusso continuo di episodi visti milioni di volte che mi accompagnano ogni giorno e riqualificano attività quotidiane altrimenti moleste: lavo i piatti con Friends, pulisco il bagno con 30 Rock, cucino con Boris, faccio gli squat con The Office. C’è chi si rilassa con la musica classica, chi con gli audiolibri. Io mi rilasso con la voce di Steve Carell che dice «That’s what she said» o quella di Pannofino che urla «So’ de Fiano Romano».

A volte penso a cosa succederebbe se fossi l’ultima persona sulla faccia della Terra e dovessi spiegare a una razza aliena i progressi dell’umanità. Non saprei come funziona un telefono, o le centrali fotovoltaiche, o un’automobile. Diamine, non saprei neanche accendere un fuoco. Potrei tuttavia intrattenerli con la recitazione integrale di diverse puntate di Gilmore Girls. Per fortuna non esiste uno scenario verosimile in cui io sono l’ultima persona viva sul pianeta. In caso di apocalisse sarei senza dubbio tra le prime a morire.

Generazione di nostalgici

So di essere una creatura estremamente ripetitiva – nostalgica, se vogliamo fare i romantici – ma non sono l’unica. Ho un’amica che inizia ogni mattina con una sigaretta e una puntata di How I Met Your Mother, un’altra con cui parlo esclusivamente per citazioni di Sex and The City e non ho neanche un amico maschio che non sappia a memoria tutti i dialoghi dei Simpson. C’è qualcosa di molto confortante nelle cose che ami e conosci alla perfezione. Sono piccole capsule di serenità, una macchina del tempo su cui sali per sentirti felice come la prima volta che le hai viste. Sono, in sostanza, un ottimo anestetico. Vale per serie, film, dischi ascoltati centinaia di volte sdraiati sul tappeto della cameretta pensando allo psicodramma del giorno. La mia generazione, più di altre, ha una gran quantità di questi altarini: seminiamo cuori sulle pagine Instagram dedicate a oggetti e miti degli anni Novanta, ripristiniamo vecchie console Nintendo, cerchiamo di integrare collarini elastici nei nostri look da lavoro, buttiamo pomeriggi su YouTube a cercare puntate di MTV Cribs, rivendichiamo Fran Drescher come icona di stile, chiediamo giustizia per Britney Spears.

L’industria culturale sembra avere inquadrato molto bene questa nostra indole passatista e ha deciso di rispondere, spremendola fino all’ultima goccia di glitter. Sono gli anni dei reboot, dei remake, dei revival, dei sequel dei sequel dei sequel di qualsiasi cosa abbiamo amato un tempo. Disney+ è piovuto dal cielo durante la pandemia, completando l’opera di regressione e costringendoci su un divano a guardare vecchi cartoni animati senza soluzione di continuità, durante quello che racconteremo ai nostri nipoti come il periodo più traumatico della nostra esistenza. Un anno di morte e incertezza, brevemente intervallato dal Re Leone.

Anche i social intanto sfruttano questa nostra retromania, per dirla con il celebre titolo di Simon Reynolds. Penso in particolare alla funzione di Facebook che ti mostra ogni giorno cosa facevi nella stessa data alcuni anni fa, una tortura che più di una volta mi ha fatto contemplare la possibilità di fare causa a Mark Zuckerberg.

L’ha detto anche Reynolds stesso, c’è qualcosa di inquietante in questo attaccamento al passato (“mania”, mica “filia”) e, se devo essere sincera, quando penso all’aggettivo “nostalgico” la prima immagine che mi viene in mente è quella dei cortei alla tomba di Mussolini a Predappio, cioè qualcosa che ha più a che fare con l’ignoranza e la malattia psichiatrica che non con il romanticismo e l’affetto.

Non è sano avvinghiarsi ai tempi che furono, ed è anche parecchio infruttuoso. Di recente l’ho sentito dire anche al comico Edoardo Ferrario nella puntata Nostalgia canaglia di Cachemire, il podcast (morbidissimo) che tiene insieme a Luca Ravenna: «Penso sia meglio attrezzarsi per cambiare le cose piuttosto che salire in soffitta e spolverare Emilio Robot». Il nostro problema è un po’ questo qui: il passato ci piace tanto perché il presente ci deprime e il futuro ci terrorizza. Siamo cresciuti con le grandi promesse e nel fulgore degli anni Novanta e ci siamo avviati all’età adulta con la crisi del 2008 di traverso come una lisca di pesce. È un po’ come per gli anziani, che più invecchiano più raccontano i soliti quattro aneddoti di gioventù: tra pensare alla morte che li attende o al giorno in cui presero il treno per la prima volta, è sicuramente meglio la seconda. Davanti noi abbiamo l’emergenza climatica, la povertà e la pensione a 140 anni, dietro abbiamo Marco Maccarini e Giorgia Surina sulla terrazza di Trl. Ripongo tutte le mie speranze nella generazione Z che mi sembra piena di energie, a giudicare da TikTok. Da qualche parte tra Greta Thunberg e un balletto sincronizzato c’è un futuro migliore.

Ferro da stiro sul petto

Ma per quanto ami rivendicare appartenenze generazionali di sentimenti universali, mi tocca segnalare che la nostalgia non se la sono inventata i millennial (il punto è proprio questo, non siamo più capaci di inventarci alcunché). La parola nostalgia, combinazione delle parole greche nostos (ritorno a casa) e algos (dolore) – e qui si esauriscono le mie reminiscenze del liceo classico – fu coniata nel XVII secolo da Johannes Hofer, studente di medicina, per descrivere una malattia neurologica diffusa tra i soldati svizzeri depressi che combattevano in terre straniere. La teoria era che i soldati elvetici avessero nostalgia delle montagne innevate, o che potessero essere cognitivamente danneggiati dal costante suono dei campanacci delle mucche nei pascoli del loro paese d’origine (giuro). Negli anni il male si propagò tra i militari di tutte le nazioni al punto che nel 1733 un generale russo fece spargere la voce che i soldati affetti da nostalgia sarebbero stati sepolti vivi. Nel 1790 un medico francese propose una cura – un ferro rovente sul petto – e solo nell’Ottocento il termine perse i connotati originali e iniziò a essere considerato un male dell’animo, cioè il sentimento che conosciamo oggi. Due secoli dopo è anche un ottimo modello di business.

Certo è che l’ultimo anno non è stato un terreno fertilissimo per i cambiamenti, rivoluzioni dal proprio salotto non se ne fanno. Pensare al passato, a tempi più semplici – senza mascherine, coprifuoco e Dpcm – non è mai stato più gratificante e deliziosamente malinconico di così. Per quanto mi riguarda sono stati mesi di una staticità senza precedenti, anche per una rivangatrice come me. Ho rivisto tutto il rivedibile e l’ho fatto in gran parte dall’alto del mio stepper, un attrezzo del demonio su cui ho percorso chilometri e chilometri, senza spostarmi di un millimetro (e senza perdere neanche un centimetro di girocoscia, fra l’altro). Comincio a scordarmi com’erano le mie giornate prima di tutto questo e a volte mi sembra di anticipare la nostalgia che verrà dopo, quando sarà finalmente passato e dovrò riadeguarmi a una vita normale. Si può provare nostalgia di tutto, anche del proprio dolore.

A questo punto non mi resta che cercare una cura: ferro da stiro o piastra per capelli sul petto e via.

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