Sul palcoscenico del teatro italiano dei libri, di per sé niente affatto disprezzabile, Ernesto Ferrero ha interpretato tutti i ruoli principali.

È stato autore sia di narrativa sia di saggistica e in questa veste vincitore dei premi più prestigiosi, dal Viareggio allo Strega.

È stato editore, alto ufficiale anche se mai responsabile ultimo, dei maggiori navigli della flotta italiana, Einaudi, Mondadori, Garzanti per non dire delle minuscole, ma eredi di un passato glorioso, Edizioni di Comunità. È stato grande comunicatore e grande organizzatore della spettacolare marcia di avvicinamento che con il Salone di Torino ha messo i libri alla portata della gente comune.

Senza perdere del tutto – e questo è stato il suo tratto distintivo – il glamour dei felici pochi, impersonato da lui medesimo, dalla sua rosa di carta all’occhiello, dalla grazia dei suoi modi settecenteschi. Un protagonista multiforme, un Proteo sgusciante e inafferrabile, e nello stesso tempo uno dei pochi in Italia a credere nella dignità professionale dei mestieri del libro, nel dovere della discrezione e della misura.

Reietti

Come autore, e soprattutto come autore d’invenzione, Ernesto – lui all’apparenza così composto, così borghese – ha sempre prediletto i reietti, i marginali, gli incompresi. A cominciare con i veri e propri delinquenti, visti però di scorcio, attraverso i loro linguaggi, nel suo libro d’esordio, quel I gerghi della mala che gli valse il Premio Viareggio. E a seguire poi con quel serial killer di Gilles de Rais, più noto come Barbablù, e con quell’estroso truffatore autobattezzatosi Cervo Bianco che riscosse grande successo nell’Italia fascista facendosi passare per un esule capo indiano.

E a ben vedere è laterale, anche se certo non delinquenziale, Martino Acquabona, il bibliotecario elbano attraverso i cui occhi vediamo profilarsi, anche qui di scorcio, la gigantesca figura di Napoleone. L’enne, N, sintetico titolo, il più breve della storia, del suo romanzo più fortunato con il quale Ernesto venne incoronato vincitore del Premio Strega.

Ma è anche marginale e incompreso Emilio Salgari, il protagonista di Disegnare il vento, nella cui casa torinese Ernesto andò ad abitare, ai piedi della collina dove quel disgraziatissimo autore, tormentato, truffato, non pagato, disperato si straziò nel suicidio più crudele che si possa immaginare.

Marginale, incompreso, reietto quanto altri mai è soprattutto il san Francesco di Francesco e il sultano, nulla a che vedere con il regnante pontefice e meno di nulla con l’usuale oleografia francescana.

Un Francesco miserrimo, piagato, nullificato, ossessionato dal rivivere in sé stesso, concretamente, la passione di Cristo. Un libro potente e nella sua verità imbarazzante, tant’è che venne in pratica passato sotto silenzio. Del resto quali fossero le vere propensioni di Ernesto lo si vede benissimo dalla sua passione per Céline, di cui fu traduttore e difensore ostinato. Capiva che il suo filonazismo era solo il travestimento del suo odio antiborghese, che l’umanità autentica per lui si trovava solo nello schifo, nel marciume, nel pus.

Paradiso

In fatto di editoria Ernesto aveva idee semplici e chiarissime. Da una parte c’erano le isole dei beati, ovvero il paradiso, dall’altra il purgatorio dove, essendo peccatori e soprattutto bisognosi di sostentamento, si era costretti a vivere. Dell’inferno, ammesso che esistesse, non si parlava, non interessava, tanto lì non si sarebbe mai finiti. Il paradiso era l’Einaudi, la sua Einaudi, quella degli anni Sessanta e Settanta fin quasi alla soglia dei fatali Ottanta, quando il paradiso sarebbe diventato il paradiso perduto, sia perché lui Ernesto ne era stato scacciato, sia perché il paradiso medesimo, diventato nel frattempo più simile al Walhalla, era crollato.

La natura paradisiaca dell’Einaudi dipendeva dalla somma di diversi fattori. L’eleganza in primo luogo, quella fisica, a partire dagli abiti, a seguire con gli ambienti e a finire con la grafica, con le copertine.

Poi la qualità di ciò che si pubblicava, di quel che in ere più volgari si sarebbe chiamato il prodotto. Si pubblicava ciò che meritava di essere pubblicato. Punto. Nessuna preventiva considerazione di possibili vantaggi materiali. Poi ancora l’eccellenza, indiscutibile, delle persone impegnate nell’impresa. Tutte diverse beninteso, ciascuna con un suo profilo preciso e irriducibile a ogni altro, dato che l’orchestra è tale solo se gli strumenti hanno un proprio timbro, una propria qualità.

E infine lui, l’editore, Giulio Einaudi, l’uomo che a detta di Giulio Bollati, suo supremo cancelliere e maestro editoriale di Ernesto, aveva investito tutto sul prestigio. Come tutti i gran signori con le sue bizze e le sue idiosincrasie, ma di fatto l’unico che avesse capito il ruolo, la funzione e l’importanza dell’editoria, l’unico vero editore nel senso più pieno che ci fosse in Italia.

Al paradiso einaudiano Ernesto dedicò un libro esplicito fin dal titolo, I migliori anni della nostra vita e un altro ancor più esplicito dedicato dalla località aostana dove ogni anno si teneva la riunione strategica, Rhêmes o della felicità. Al suo paradiso o Walhalla od Olimpo che dir si voglia rimase sempre fedele, non lo tradì mai. Anche dopo la caduta, quando Giulio Einaudi non era più al centro della scena, trascurato se non evitato da molti suoi ex cortigiani, Ernesto e sua moglie Carla Sacchi, einaudiana anche lei conosciuta all’Einaudi e all’Einaudi sposata, furono i più vicini al vecchio editore nonostante lui in pratica li avesse a suo tempo entrambi cacciati. La classe, come si usa dire, non è acqua ed Ernesto di sicuro non ne difettava.

Incontri decisivi

All’Einaudi soprattutto Ernesto ebbe l’occasione di fare gli incontri più profondi, quelli intellettualmente, ma anche moralmente, decisivi nella costruzione della propria identità.

Più profondi perché riguardavano figure magne le quali al di là della modestia e della discrezione con le quali si presentavano erano oggettivamente punti di riferimento della cultura mondiale.

Con Primo Levi aveva una frequentazione assidua e delicata, come se fosse fatto di porcellana, attento a non rompere un equilibrio che si intuiva fragile, ma desideroso nello stesso tempo di non lasciarsi sfuggire nulla di quel che per cenni si poteva cogliere.

Il vero volto

Con Calvino il rapporto era meno familiare e più distanziato, più con l’opera che con l’uomo. Avevano oltretutto ricoperto in tempi diversi il medesimo ruolo, responsabile della comunicazione, all’interno della casa editrice.

Calvino gli appariva soprattutto l’esploratore della letteratura, a mezza strada tra lo scienziato e l’avventuriero, nel senso che per lui la letteratura era uno strumento conoscitivo, un cannocchiale puntato si un continente ignoto da non tenere rinchiuso nei confini di un genere, ma da usare estendendo sempre di più il suo campo di applicazione.

Ma il dialogo e il confronto proseguivano ininterrotti anche attraverso i decenni successivi alla sua morte. Fino al punto di dedicare a Calvino il suo ultimo libro, Italo. E lui sapeva benissimo che sarebbe stato l’ultimo. Un libro impeccabile, senza smagliature, perché la religione delle cose ben fatte non prevede cedimenti, sentimentalismi. Un libro intimamente commosso, bellissimo, dove in trasparenza dietro la figura di Calvino non è difficile intravedere il vero volto di Ernesto.

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