Un’estate degli anni Sessanta, in mezzo all’Egeo. Uno yacht arranca tra altissime onde sospinte da un furioso meltemi, e lo skipper, abbarbicato alla ruota del timone, fatica a tenere una rotta che consenta di limitare i danni.

A bordo ci sono ospiti illustri: Giulio Einaudi, Giovanni Pirelli (che è uscito dall’azienda di famiglia per meglio dedicarsi alle sue passioni intellettuali), Dante Isella critico e filologo, con le rispettive consorti. A metà del pomeriggio, Einaudi chiede il solito tè alla moglie dello skipper che funge da marinaio. La signora lo guarda sbalordita, i presenti abbozzano un sorriso tra gli spruzzi.

Einaudi ripete la richiesta con una fermezza appena irritata. Non sarà certo la prospettiva di un naufragio imminente a fargli rinunciare al rito del tè. Il tè verrà servito acrobaticamente, e lui se lo sorbisce come se fosse seduto nel suo ufficio torinese, all’angolo tra via Biancamano e corso Re Umberto, con vista di ippocastani e palazzi mansardati alla parigina, e davanti un mucchietto di ritagli dell’Eco della Stampa da piluccare, la pipa, una scatola di tabacco Balkan Sobranie e le bellissime tazze bianche di Rosenthal per il tè.

I «vecchi» della casa editrice e noi ragazzi di bottega sappiamo bene che se si mette in testa qualcosa non c’è modo di resistergli o, peggio, di fargli cambiare idea. Come per Napoleone, il solo fatto di ammettere che nei vocabolari esiste la parola «impossibile». sinonimo di incapacità grave, oltreché di scarso attaccamento alla Causa. Così lui è abituato a chiedere l’impossibile, e i suoi a fare i salti mortali per accontentarlo. Nessuno protesta. Nessuno sospira.

Tranquillo imperio 

L’anno che esce Il portiere di notte della Cavani la redazione esprime giudizi severi (il film sembra politicamente scorretto, anche Primo Levi avanza dure critiche), ma l’editore si dichiara incantato dal fascino di Charlotte Rampling, torbida eroina del film. Decide che deve conoscerla, e mette in movimento i suoi. Tramite amicizie romane viene a sapere che la Rampling dovrà girare qualche scena di un nuovo film dalle parti del Parco del Ticino.

Vengono avviate indagini, interrogati a tappeto i sindaci della zona, le tenenze dei carabinieri, i marescialli di paese, le loro mogli. Finalmente si viene a sapere che il set è dalle parti di Vigevano…

Nel frattempo lui ha cambiato miraggio. Il suo carisma funziona anche con chi non lo conosce. Un’estate scendiamo dal Col Chécrouit dopo una lunga gita tra cespugli di rose canine, e arriviamo in un ristorante verso le quattro del pomeriggio. Le cucine sono spente da un pezzo e il cuoco sta facendo la pennichella a casa sua. Lui chiede di mangiare qualcosa con la solita aria di tranquillo imperio, come se chiedesse la cosa più ovvia del mondo e gli altri fossero tenuti a obbedirgli; ed ecco che per magia il ristorante si rimette in movimento.

Usa lo stesso tono con le grandi banche romane, lasciando intendere che dovrebbero essergli grati, perché li ha invitati a collaborare alla costruzione del Partenone. Qualcosa che potrà riverberare sui vili mercanti di denaro.

Cartaccia bisunta

Di soldi in casa editrice non ce ne sono mai stati, ma questo non sembra un gran problema. Mai la casa editrice è stata così creativa come nei difficilissimi anni Cinquanta, segnati da una crisi finanziaria che Einaudi risolve in parte lanciando una campagna di azionariato popolare a mille lire per azione, e convincendo gli autori a trasformare in azioni i loro crediti (aveva acconsentito anche Hemingway con cinque milioni, la metà del suo credito). Siamo tutti dei volontari, o quasi: autori, traduttori, collaboratori, dipendenti.

Felici di esserlo, orgogliosi di lavorare per la casa più prestigiosa dell’epoca, la vera università degli italiani. Quando Beppe Fenoglio chiede all’amico Calvino il pagamento d’un vecchio anticipo, poche decine di migliaia di lire, perché dovrebbe pagare le rate della macchina da scrivere, quasi se ne vergogna. Se uno chiede i soldi che gli spettano alla casa editrice è perché dev’essere proprio disperato.

Lui stesso, l’editore, gira senza soldi. A Torino ci sono soltanto lui e l’Avvocato a girare senza soldi (le carte di credito non si sa ancora cosa sono). I soldi – cartaccia bisunta – gli fanno un po’ schifo e poi c’è sempre qualcuno che provvede per lui. Ma una volta accade che qualcuno lo batte sul suo stesso terreno. È quell’altro incantatore di serpenti e grande impunito, Mario Soldati.

Siamo a metà degli anni Settanta, si presenta a Bologna un volume della Storia d’Italia con grande concorso di star culturali, che si producono in memorabili performance affabulatorie: sulla musica popolare, sulle «culture materiali» del paese ecc. Tra loro c’è anche Soldati. Finito lo show, lui e Einaudi vanno in giro per i portici, e finiscono in un lussuoso negozio d’abbigliamento. Einaudi sceglie una morbida giacca di cachemire, Soldati adocchia un giaccone di montone con risvolti di pelliccia, lo prova, si pavoneggia allo specchio, tutti gli dicono che sta benissimo.

E lui prontamente: «Grazie, lo considero un omaggio!» I due escono contenti, tocca a Nico Orengo, enfant chéri dell’editore, tirar fuori il libretto degli assegni. Naturalmente l’editore non guida. Aveva tentato a prendere la patente negli anni Cinquanta, con Franco Lucentini come volenteroso insegnante. Erano andati in collina a provare, un disastro. Finivano sempre nei prati. D’altronde anche Calvino era un pessimo guidatore. Quando partiva per Parigi con l’auto carica di pasta De Cecco tutti tremavano.

Il re dei curiosi

«Editoria è conoscenza degli uomini», recita un aforisma dell’editore. Lui è il re dei Curiosi. Tutto quello che è nuovo, diverso, singolare, irregolare, giovane, mette in moto la sua fantasia, gli incendia desideri infantili, e come tali assoluti. Per far credito a un giovane talento è disposto a mettere in crisi rapporti consolidati. Diceva Orengo: a lui interessavano le persone, i libri erano semplicemente uno strumento per raggiungerle.

Gli interessavano i creativi, ivi comprese le piante. Anche in fatto di botanica era intransigente. Doveva avere sempre il meglio. Le sue rose erano le più belle e rare, anzi introvabili. Immagino la sofferenza che deve avergli procurato la vista delle meraviglie del parco di Villar Perosa, in occasione del suo unico incontro con l’Avvocato. Sì, Donna Marella aveva la moyesii, la Dorothy Perkins e una gigantesca roxburghii, una rosa che potrebbe prendere l’Oscar come migliore attrice protagonista, secondo Paolo Pejrone. Ma lui…

Detestava tutto quello che è esotico, che fa moda, che è lezioso: le «piante da signora», l’ordine ottocentesco, così prevedibile. Immettere la flora mediterranea (bougainvillee, plumbago, oleandri) nel severo codice botanico del Piemonte gli sembrava, più che una forzatura, una caduta di stile. Difatti a Dogliani piantava ciliegi da fiore, sorbi, piante da bacche; rose e rosmarini in abbondanza. Niente ortensie: troppo ordinate, insipide: «noiose». In generale non amava le piante docili, senza forte personalità. Cercava la sfida anche in giardino. Si intestardiva con i rododendri su quelle colline troppo calcaree. Non a caso, gli amici più fidati erano legati alla terra: Nuto Revelli a Cuneo, Mario Rigoni Stern ad Asiago, Bartolo Mascarello a Barolo. E suo fratello Roberto, l’ingegnere, insuperabile campione di stile e generosità, a Milano.

Coltivare talenti

Figlio di un padre sapiente, fratello di due primi della classe, sul terreno degli studi non poteva batterli. Allora li ha sfidati per interposta persona, diventando direttore d’orchestra, ricorrendo ai talenti altrui, organizzandoli, inventando un progetto culturale: una casa editrice per il postfascismo, degna di un paese che sarebbe dovuto diventare moderno.

Ci voleva un bel coraggio anche fisico, all’inizio degli anni Trenta, pensare al dopo, e difatti fioccarono intimidazioni, arresti, condanne pesanti. La sua sola fortuna fu quella di pescare in un mazzo, quello torinese, dove stavano le intelligenze più vive: Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Vittorio Foa, Carlo Levi, Franco Antonicelli… Quelli del D’Azeglio, i «piccoli Bruti» spregiatori della tirannide allevati dal professor Augusto Monti.

Di solito i grandi si circondano di yes-men, esecutori ubbidienti che non danno ombra. Lui voleva il contrasto, lo scontro dialettico, sempre. L’aggettivo che usava con maggior disprezzo era «servo». Non voleva dei servi, a bordo. Voleva delle teste forti che dessero il meglio di sé a un’impresa comune.

Certo, lui usava la loro intelligenza, ma non a fini di asservimento personale. Uomo di poche letture (perché impegnato a far altro), aveva il dono di capire qual era il valore di novità d’un libro senza nemmeno aprirlo. Soprattutto sapeva scegliere i collaboratori. Era fiero e non geloso delle intelligenze altrui –  tratto rarissimo nei condottieri. Guardava con occhi umidi di ammirazione gli exploit del giovane Daniele Del Giudice.

La noia era il suo principale e unico nemico. Altro insulto massimo, oltre a «noioso» e «burocrate», era «erudito». Detestava lo specialismo accademico fine a sé stesso. Se invece ti dava del verme, voleva dire che sì, avevi sbagliato, ma ti potevi ancora riscattare. Peggio delle parole erano i silenzi. Allora era proprio finita. Di certo appena un collaboratore accennava a sedersi, a rifiatare un attimo, lui agitava la frusta.

È arrivato con un fisico asciutto e una testa di ragazzo fino a ottantasette anni con la pratica sportiva. Montagna, sci, nuoto, lunghe passeggiate, almeno cinque chilometri al giorno, mani dietro la schiena, la spalla sinistra un po’ più in alto della destra. Di lui si raccontava con ammirazione che a sessant’anni s’era rotolato nudo in un nevaio della Val di Rhêmes, come l’eroe di una saga nordica.

Mai stanco

Erano poche, le sue parole. Si esprimeva con il suo modo di guardarti, i movimenti delle mani, i sogghigni, qualche sbuffo nasale. Seduceva con i comportamenti, le scelte, le assenze, non con la retorica verbale. Le sue apparizioni pubbliche erano calcolate accuratamente. I messaggi che lanciava erano trasversali, «cinesi», di trasparenza simbolica. Non amava ringraziare, né essere ringraziato.

L’essenzialità di un rapporto stava nei gesti. Si svegliava con l’idea che quel giorno doveva essere memorabile, soprattutto per incontri, come se fosse l’ultimo. La giornata proseguiva senza soluzioni di continuità nella serata. Rubrica telefonica alla mano, si precettavano amici, emergenti in ogni campo, artisti, musicisti. Una sera portai a casa Einaudi il giovane Enzo Jannacci in una delle sue prime tournée.

Stava lì in abito grigio come un impiegato meridionale, con la pesante montatura nera degli occhiali, legnoso e stralunato come Il palo della banda dell’Ortica. Provò a raccontare una barzelletta. Non gli venne molto bene, ma tutti decretarono che era straordinario. Uomo del fare concreto, Einaudi amava frequentare soprattutto artisti.

Giulio Paolini, il più einaudiano di tutti, con le sue sottigliezze concettuali. Di Penone lo intrigavano le tecniche: come faceva a scortecciare i suoi alberi, a portarli giù dal bosco (una volta per trasportare in città un albero dal suo laboratorio collinare aveva mandato a cercare un trattore da un contadino). E poi Salvo, Mainolfi, Merz, Mondino. Le sue prime copertine gliele avevano dipinte Menzio, Ajmone, Guttuso. Non era capriccioso, come spesso si diceva.

Era un uomo che non conosceva stanchezza fisica o mentale, che impiegava la sua forte energia vitale per inseguire molte prede contemporaneamente, cambiando spesso direzione di caccia. Detestava il già visto, la routine. Il suo ristorante editoriale non usava precotti, cibi riscaldati, fornetti a microonde. Tutto viaggiava espresso, il riso doveva essere sempre al dente, un piatto ottimo e ormai pronto veniva buttato via per essere sostituito da un altro ancora migliore.Nel portafoglio dei titoli si allungava l’elenco dei libri che un giorno avevano destato le sue passioni, e adesso giacevano malinconicamente abbandonati, in waiting list per chissà quanti anni, scalzati da altri più fascinosi, più autenticamente nuovi.

La rigorosa einaudianità

L’einaudianità è anzitutto una categoria estetica. Sobrietà, rigore, essenzialità, in tutte le cose, nella grafica di un libro, nell’arredamento di una casa, nella scelta di un cibo. È lo stile di famiglia, asciutto, nordico, altoborghese, che non esclude il calore della home. L’eleganza degli Einaudi consiste nel non farsi notare come tale. Per anni, casa di vacanza in affitto a Bocca di Magra, una campagna semplice e appartata, tra fiume e mare, dove andavano anche Vittorio Sereni e Franco Fortini; poi la scabra Filicudi. A tavola bene il pinzimonio, le frittate, i «cibi poveri». Niente sughi e fritti, meno che mai l’esibizionistica nouvelle cuisine dei nuovi ricchi. In casa (e nelle copertine), molti spazi bianchi, che dettano i ritmi, valorizzano pochi oggetti. Un minimalismo zen. Sdegno dell’editore per il sovraccarico, per le case inzeppate di troppi oggetti, per tutto quello che non risponde a una funzionalità rigorosa. Se una cosa non gli piace lo dice con un ghigno beffardo.

Provoca per educare. Non ha atteggiamenti didascalici, non ha niente da insegnare direttamente. Fa domande, ascolta molto. Ti fa sentire complice non di un sapere, ma di un atteggiamento verso il mondo. Ti fa suo per sempre. Anche quando te ne vai (quante partenze e ritorni…) sa che un giorno tornerai. Non porta rancori, è un maestro anche nell’arte del ricupero, l’idea di tornare a sedurti dopo tanto tempo lo diverte. Aveva detto bene Goffredo Parise: tratto caratteristico dell’editore è la femminilità. Tutt’altro che femmineo, si comporta da grande diva, prende e lascia imprevedibilmente. Generazioni di autori e collaboratori si esaltano e soffrono, in ogni caso non possono farne a meno. Lo amano perdutamente.

Ancora adesso, per valutare persone, cose e situazioni, in casa abbiamo un metro: questo è einaudiano, questo non è einaudiano. Funziona.


Il testo è un estratto da Album di famiglia (Einaudi 2022, pp. 328, euro 21) di Ernesto Ferrero

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