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Poche cose hanno accompagnato il mondo, in ogni sua parte, in ogni sua epoca, come i forni comunitari. In Italia ce lo dicono i resti dei pistrinum romani e quelli di epoca medioevale. Lo raccontano le pagine della letteratura di guerra, nei cafoni in Fontamara, giustiziati proprio attorno al forno del paese, e nei falò che per Pavese erano già diventati simulacri di un mondo perduto. Abbiamo iniziato a dimenticarcene durante il boom degli anni Sessanta, quando l’accessibilità del suo benessere ha ridisegnato le pratiche collettive in esperienze quasi del tutto private. Con l’arrivo degli Zanussi e degli Zoppas, del gas e dell’elettrico, è venuta meno la necessità di recarsi in spazi comuni per cuocere il pane o gli stufati invernali e, così, i forni sono finiti in disuso.

Se qualcosa è rimasto è perché, oltre a un fatto materiale, a prevalere è stata la necessità di incontro e di presidio, la stessa a cui oggi si guarda con un’ottica di possibilità più che per uno sguardo pavesiano. Lontano dalla risacca nostalgica, il recupero delle pratiche collettive è una delle risorse messe in campo nella rigenerazione dei tessuti sociali sfibrati, soprattutto in aree in cui gli spazi di socialità sembrano essersi azzerati.

«I forni comuni possono essere intesi come spazi collettivi in cui la produzione di cibo avviene attraverso una cooperazione incentrata sulle relazioni sociali fra chi partecipa», spiega l’antropologo Gabriele Volpato. «In questi luoghi non si punta a produrre un surplus in termini di ricchezza ma a rispondere a dei bisogni sociali e collettivi. È un modo di interpretare la teoria del commoning di Gibson-Graham, in cui un bene comune non lo è in quanto oggetto ma viene inteso come un processo in cui le persone si ritrovano a condividere tutta una serie di attività di gestione e di relazione intorno a questo bene».

La socialità dell’utilizzo

Nel 2022, Volpato e l’agroecologa Chiara Flora Bassignana ne hanno dato traccia in un articolo accademico che si concentra sull’area di alcune valli del Piemonte. Bassignana, in particolare, ha documentato sul campo l’attività dei forni, non tutti comuni - alcuni privati, altri comunali - e la socialità attivata dal loro utilizzo: «Per le sue caratteristiche il forno prevede un’alternanza fra momenti di azione e di attesa abbastanza lunga», racconta Bassignana, «questo li rende occasioni per la co-creazione e per la condivisione di pratiche e di storie. Osservando alcuni dei momenti più simbolici, come potevano essere la preparazione della legna o l’accensione del fuoco, vedevamo i più anziani insegnare o spiegare le pratiche più tradizionali. Il forno diventava un luogo di confronto fra generazioni e, nel caso dei nuovi montanari, anche di provenienze. Fare il pane si mostrava come un modo di socializzare e vivere all’interno di uno spazio politico, nel momento in cui si discuteva su come organizzarsi e gestire il forno nelle sue varie fasi, dalla cottura alla manutenzione, fino alla raccolta della legna».

La ripresa di queste pratiche, nel caso delle vallate piemontesi e in quello di altre comunità, ha aiutato a ricostruire e riallacciare il territorio alla sua filiera, muovendo le riflessioni di questi nuovi nuclei su scelte di mutuo sostegno e valorizzazione delle realtà locali, quelle tradizionali e le novità portate dai nuovi abitanti: «I forni molto spesso sono stati un punto di partenza per riattivare altri processi», conclude Bassignana.

«Nel caso della Val Varaita, per esempio, si è iniziato a ragionare sulla filiera di cereali che, con gli anni e lo spopolamento, si era persa, riavviando le idee e i processi di produzione sui cereali locali come la segale». È nel 2008, invece, che nasce la Comunità dei forni collettivi di Collazzone e dell’Umbria, che ha rintracciato e recuperato i forni e le pratiche storiche nella media valle del Tevere. «Quando abbiamo cominciato, solo alcuni dei forni di paese erano rimasti attivi», spiega Rita Boini, promotrice insieme a Giannina Lanari della comunità Slow Food.

«Oggi, dopo averne ristrutturato qualcuno e riavviato quelli ancora funzionanti, si è ripreso a utilizzarli, anche se non più su base settimanale come un tempo. Soprattutto i più giovani hanno iniziato a recuperare le ricette non solo festive ma del pane di tutti i giorni, ripristinando spontaneamente sia questi luoghi di incontro sia quel legame alle pratiche del passato che era quasi del tutto scomparso».

I forni comuni sono esempi continui di coabitazione dello spazio sociale, non solo in Italia. In Marocco i farnatchi continuano a far parte della vita quotidiana, lo sono gli hornos sudamericani frequentati da centinaia di persone ogni giorno, o i tandoor nei quartieri dell’India.

Hanno ispirato, poi, pratiche di solidarietà come quella di Lovens e di The Great Oven, che utilizzano il forno come tramite per riattivare la collettività nei campi profughi e nelle località colpite da guerre e crisi sociali come il Libano e la Siria: «Nel 2019 mi sono trasferito in Libano per un documentario,» racconta lo chef James Edward Gomez Thompson che ha fondato The Great Oven insieme a Nour Matraji, «lì ho conosciuto Nour che mi ha raccontato delle pratiche comunitarie libanesi, di sua nonna che, durante la guerra civile, aveva aperto un forno che potevano utilizzare tutti. Abbiamo capito da subito che potesse essere un modo per praticare la pace. In quel periodo i campi erano pieni di profughi siriani e abbiamo cominciato a portare i nostri forni in quelle comunità, incontrando i loro leader e lavorando insieme a loro per creare uno spazio in cui poter cucinare e ritrovarsi».

Dal 2019 The Great Oven ha raggiunto una decina di paesi, unisce artisti e abitanti nel concepire gli spazi che anima con pasti collettivi e feste insieme a Radio Alhara: «Coinvolgere gli artisti per la decorazione degli spazi e del forno fa parte di un tipo di esperienza partecipativa, sono un momento in cui la comunità rivendica la sua appartenenza. L’aiuto alimentare diventa una sorta di conseguenza in questo contesto», conclude Gomez Thompson. «Quello che vogliamo è creare spazi sicuri in cui la cultura possa prosperare e guidare quei moti di la solidarietà fondamentali per vivere in pace. A volte serve davvero un forno gigantesco per ricordare alle persone che è possibile prendersi cura l’uno dell’altro».

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