E se l’IA, l’Intelligenza Artificiale, governasse in toto la scelta degli audiovisivi da realizzare e relativi contents? Non è distopia remota, tutt’altro. E di recente è la domanda che molti si pongono, indifferentemente, per serie e cinema da grande schermo.

Le variabili relative agli intrecci tra poteri e produzioni potrebbero, o no, essere incluse nel calcolo. Ma restiamo per ora alla pura logica di mercato. Per la terza stagione di Squid Game, ad esempio, la serie-fenomeno sudcoreana su Netflix, le sinapsi del suo creatore Hwang Dong-hyuk sembrano marciare in perfetta sintonia con una IA ipotetica.

La seconda stagione aveva falcidiato i devoti: un disastro. Squid Game 3 ripristina saggiamente i giochi infantili basici (nascondino, salto alla corda) e dilata la suspense su interi episodi. Propone un parto in piena azione e trasforma un neonato in pedina numerata. In più, infierisce sul Gotha dei VIP chiamati a godere delle carneficine anche in prima persona, mascherati da guardie.

È un sadismo protetto dall’anonimato e calato in gelide orge lontanamente ispirate al Kubrick di Eyes Wide Shut. A ruota dei molti commenti apparsi sui social, l’autore nelle interviste cavalca il trend politico: «Dopo aver scritto la terza stagione ho pensato: sì, alcuni dei VIP somigliano proprio a Elon Musk».

Anche la più scrausa delle IA avrebbe bocciato invece la mattanza-shock di Joel (Pedro Pascal) già nel secondo episodio di The Last of Us Part II, in barba al giuramento di fedeltà assoluta della serie (da noi su Sky Atlantic e NOW) al videogame di culto firmato dagli stessi showrunner, Craig Mazin e Neil Druckmann.

Non viviamo tutti con il controller in mano, non siamo informati in anticipo sugli sviluppi. Sparecchiato dell’Eroe, l’entertainment è listato a lutto e ha collezionato defezioni a valanga tra gli ignari spettatori profani. Ma tempi e modi dell’esecuzione in realtà hanno scontentato perfino i puristi del videogioco.

Un film "no” per l’IA

Saltando di palo in frasca, un sistema capace di ragionare in neutralità boccerebbe in partenza la trasposizione su schermo di un romanzo come Di là dal fiume e tra gli alberi, il «Romanzo dell’Aria Acqua Terra», come lo chiamava Ernest Hemingway, uscito nel 1950 a dieci anni da Per chi suona la campana e due anni prima di Il vecchio e il mare, che gli avrebbe procurato il Nobel. Lo boccerebbe non per la qualità dell’opera ma perché è un soliloquio in forma di dialogo. È complicato reggere un film “di parole”.

Come scriveva Fernanda Pivano nell’introduzione alla sua traduzione, nel 1973, «la morte affrontata dal generale degradato al ruolo di colonnello non è imposta più o meno d’improvviso dalla violenza esterna ma è attesa durante una silenziosa, solitaria, dialogata convivenza quotidiana con l’insidia in agguato in un corpo condannato a non funzionare più». Come dice il protagonista del film, «la morte ce l’ho cucita addosso».

La regista spagnola Paula Ortiz invece questo film lo ha fatto, esce da noi il 3 luglio con PFA Films in collaborazione con L’Altro Film. Il colonnello Richard Cantwell, alter ego di Hemingway cinquantenne, è Liev Schreiber, l’aristocratica diciannovenne Renata Contarini, sua passione veneziana, è Matilda De Angelis, tra le figure di contorno cito Josh Hutcherson, Laura Morante, Danny Huston, Massimo Popolizio.

Ai tempi della stesura del romanzo la Nanda (mi scuso per l’intimità ma mi ha davvero fatto da vice-madre) era su e giù da Cortina, da Villa Aprile affittata dagli Hemingway, e dello scrittore diceva: «Papa ha ancora l’aspetto di un attore del cinema, del tipo tough alla Clark Gable o alla Humphrey Bogart, ma con una disperazione negli occhi, una tensione nei cauti movimenti delle mani (..) che gli attori non sarebbero mai riusciti a "interpretare” o a imitare».

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Un’altra Morte a Venezia

Liev Schreiber, che ha qualche anno in più del suo personaggio, in realtà la figura dello scrittore la restituisce a meraviglia, nel gioco di sovrapposizione tra pagina e vita che anticipa, non del tutto arbitrariamente, il vero suicidio di Hemingway. E l’evocazione della morte è già nel titolo del libro, che cita le ultime parole del generale confederato Thomas Jonathan Stonewall Jackson: «Lasciateci attraversare il fiume e riposare all’ombra degli alberi».

Morì, Jackson (nel film porta il suo nome l’autista del colonnello) dopo la battaglia di Chancellorsville, durante la Guerra di Secessione, colpito da fuoco amico, e il dettaglio è fortemente simbolico. Cantwell è torturato dal massacro del suo reggimento nella foresta tedesca per aver obbedito agli ordini di un "generale politico”, ma anche dall’assassinio del figlio, che si era unito a un gruppo di partigiani, da parte dei tedeschi. Dice: «La guerra è un business e l’esercito americano è il più grande affare del mondo».

La caccia alle anatre nella Barena veneziana, motivo ufficiale della spedizione del colonnello, è tornata all’onore delle cronache per via di Trump Jr. e dei suoi orgogliosi trofei di anatre protette. Negli ultimi settant’anni lo scenario hemingwayano si è svilito parecchio, e anche la struggente città lagunare da Morte a Venezia in cui si consumano gli amori senza futuro del colonnello e della sua guida-amante-interrogatrice fatica a resuscitare in pellicola. Vedi il Gritti e l’Harry’s Bar e non pensi a Hemingway, pensi ad Amazon e alle nozze oltraggiose imbastite da Luigi Brugnaro per Bezos-Sànchez. Girato però in tempi di pandemia, il film è miracolosamente esente dalle torme di turisti schiamazzanti, nababbi o proletari.

Un Tuca-Tuca di troppo, e non solo

Trasferite dalla pagina allo schermo le chiacchiere interminabili tra aragoste e "vino di Capri” (?) suonano artificiose, e non potrebbe essere altrimenti. Magari nelle intenzioni è cineturismo: è prodotto da una misteriosa Tribune Picture con il contributo della Regione Veneto. Ma alcune stonature cafonal sono proprio indigeribili, come il Tuca-Tuca di Raffaella Carrà che la povera De Angelis si ritrova a ballare in un locale chic. Tecnicamente – anche se per pochi mesi – anche la Nilla Pizzi di Grazie dei fior è anacronistica.

John Huston, Robert Altman e John Frankenheimer sono tra i molti autori che avevano preso in considerazione un film dal romanzo: per bloccarli è bastata l’intelligenza umana. Eppure Matilda De Angelis, di ben dieci anni più “anziana” della sua contessina Renata, ha quel tipo di radiosità senza tempo che risplendeva nelle Liz Taylor e nelle Vivien Leigh del secolo scorso. Non è mia amica, non è “caffè pagato”. È una constatazione.

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E oggi, alla giusta distanza temporale dal “fattaccio” dei Nastri d’Argento, con la sua “irrispettosa” polemica contro i premi ex aequo, aggiungo che De Angelis ha perfettamente ragione. Gli ex aequo per gli/le interpreti di un film premiano il regista e il casting, non i singoli attori ma la capacità di dirigerli e fonderli armoniosamente. E guarda caso si usano quasi esclusivamente per i cast femminili. Politesse vuole che si diano e si ricevano di buon grado e senza obiezioni. Ma i metaforici elefanti nelle cristallerie, mosche bianche anche se sembra un ossimoro, meritano tutto il nostro rispetto e la nostra simpatia.

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