È ormai passato il momento dei bilanci di fine anno. Eppure, le polemiche di inizio anno permettono di lanciare uno sguardo più ampio sulla vera novità del 2023 italiano: l’affermazione politica e culturale della leadership femminile. Il 2023 è stato l’anno del consolidamento di Giorgia Meloni, così come della vittoria a sorpresa di Elly Schlein. L’anno della morte di Michela Murgia all’apice della popolarità pubblica, così come l’anno della consacrazione di Chiara Ferragni al di fuori del mondo social con l’ospitata a Sanremo. L’anno della morte di Berlusconi e l’anno della defenestrazione del maschio tossico da parte della premier.

Il 2024 inizia con il dibattito, doveroso ma sopravvalutato, sulla presunta fine del tocco magico della più importante influencer italiana, Chiara Ferragni. Inizia anche con la maestria manipolativa dell’influencer-in-chief (Giorgia Meloni) e con le difficoltà tradizionali di chi influencer non è ma da cui ci si aspettava una svolta comunicativa (Elly Schlein). Benché in molti abbiano rimarcato la grande novità storica della prima presidente del consiglio donna, è sorprendente che in fondo sia stato digerito in poco tempo il fatto che il 2023 è stato dominato dalla presenza pubblica delle donne di potere.

Che valutazione dare di questa svolta storica? In assoluto, non si può che cantare vittoria per un risultato fino a pochi anni fa inimmaginabile. Inoltre, non si può che salutare positivamente quella che per molti aspetti è una normalizzazione per l’Italia che, come altri paesi, raggiunge questo record in maniera bipartisan. L’affermazione della leadership di donne copre, infatti, tutto l’arco costituzionale. Una destra-destra che si ammanta di moderatismo (Meloni), una sinistra accusata di essere più radicale di quanto effettivamente sia (Schlein), un populismo commerciale apolitico ammantato di finte campagne progressiste (Ferragni).

Non possiamo dire se l’eccezionalità dell’anno passato diventerà la norma o se sia un apice che non sarà ripetuto a breve. Ma la cosa importante è l’aver introdotto questa possibilità nel repertorio della sfera pubblica italiana che resta immutabile e melmosa per anni, e poi si scopre capace di repentini cambiamenti epocali.

Eppure, di fronte all’epocalità di questo cambiamento rimangono molti dubbi. Non tanto sulla permanenza delle leadership, quanto sulla pervasività sociale del fenomeno. Anche senza ricordare i drammatici eventi di cronaca recente, l’affermazione di donne all’apice non sembra corrispondere a un progresso sociale diffuso. In attesa di questo, dobbiamo consolarci con un piccolo avanzamento nella sfera pubblica. Il risultato dell’anno passato sconfessa una tesi pretestuosa ma talvolta evocata: che la mera presenza di donne al vertice avrebbe potuto cambiare in meglio il corso delle cose. Invece gli ultimi eventi mostrano che anche con le donne al potere abbiamo più o meno gli stessi problemi di sempre: scaltra leader reazionaria che manipola la comunicazione; segretaria già misconosciuta dal partito; influencer accusata di truffa.

Assopito da una digestione troppo veloce di una novità epocale, il dibattito pubblico italiano rischia di non assorbire il significato profondo della rivoluzione ai vertici. Frutto di donne, ciascuna a modo suo, eccezionali, la rivoluzione non deve rimanere un affare dei vertici. Compito di tutti, fare in modo che non lo sia.

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