C’è una Michela Murgia “in luce” (quella che vuole smascherare i potenti a suon di logica) e c’è una Michela Murgia ombrosa, ancestrale, lunare, ctonia, una “forza del passato” che viene a chiedere conto del presente.
Anche la prosa cambia. Si fa a propria volta sinuosa, oscura, più tradizionalmente letteraria. Accabadora diventa un caso letterario. Poi un best seller. Vince il Campiello. Viene tradotto in tutto il mondo. È un libro amato da centinaia di migliaia di lettori. È uno dei romanzi italiani più celebrati degli ultimi anni.

È il momento più alto della Michela Murgia scrittrice, ma è sufficiente a respingere chi oggi vorrebbe sminuirne i meriti (a fare uno scrittore basta un libro notevole. Raffaele La Capria insegna. Proprio Ferito a morte, tra l’altro, fu osteggiato da molti contemporanei).

Del resto, certi attacchi, oltre un determinato grado di veemenza (che i mediocri confondono con la “sincerità”), si disinnescano da soli: se il tempo è il supremo giudice delle opere letterarie, basterà in fondo aspettare perché lo scrittore che tanto detestiamo ne venga incontestabilmente ridimensionato; un eccesso di accanimento è invece sempre sospetto, ed è spesso una prova.

Quelli che stroncavano Il Gattopardo. Quelli che stroncavano La Storia. Quelli che stroncavano Il nome della rosa. Quelli che stroncavano L’amica geniale. Solo che poi le opere sono ancora tutte lì, lette da milioni di persone, studiate nelle università di mezzo mondo, mentre gli stroncatori spesso li ricordiamo solo per quello.

L’impegno

È tuttavia dopo Accabadora, all’apice del successo come romanziera, che Michela Murgia compie una scelta che pochissimi capiscono e che altri (io tra questi, all’epoca) non condividono: quella di abbandonare i panni della “scrittrice pura” e di utilizzare la letteratura (volutamente imbastardendola, semplificandola, facendone persino a volte uno strumento di persuasione) per fare politica.

Si apre al tempo stesso una delle stagioni più difficili per Murgia. La scrittrice tenta la strada della politica istituzionale. Si candida alla presidenza della regione Sardegna, e perde. Più che la competizione, Michela Murgia aveva l’agonismo (forse anche più dell’antagonismo) nel sangue.

La sconfitta alle elezioni sarde è un duro colpo, c’è forse qualche comprensibile sbandamento. È però da questa caduta che Murgia rinasce per l’ennesima volta, ed è, per così dire, la trasfigurazione decisiva.

È qui che comincia a usare i social in modo programmatico ed efficace (e a volte eccessivo, spericolato), che lavora in televisione, che conduce trasmissioni radiofoniche, che interviene sulle prime pagine dei quotidiani, che diventa un’intellettuale di enorme visibilità, che parla a ragazze e ragazzi a cui attraverso i soli libri non sarebbe arrivata, che catalizza l’attenzione sulle questioni del femminismo, dell’intersezionalità, della famiglia queer, è qui che diventa una guida per molte e molti, un oggetto d’odio per altre e altri, che risulta divisiva, insopportabile, oppure provvidenziale.

È, qui, soprattutto, in un modo per me incredibile, che viene identificata come una sorta di nemico pubblico (la parola non è avversario) da alcuni leader politici di destra, e dai loro galoppini.

I social

A questo punto chi vuole sminuire Michela Murgia comincerà a dire che non è più una scrittrice ma una pop star, non un’intellettuale ma un’influencer. (…) I social sono il territorio della contraddizione e del rischio assoluto. Sono anche il gioco dove il branco vince sempre. (…) Non sono stati progettati per ospitare dibattiti di spessore, ma sono il luogo in cui molti dibattiti che aspirano a essere influenti si sono disgraziatamente trasferiti.
Chi si lamenta che “non ci sono più gli intellettuali di una volta” ha in mente il mondo in cui vivevano Pasolini, Calvino e Morante.

È una lamentazione spesso frutto di meschinità: se pretendo che Pasolini venga fuori da un tempo che non potrà produrlo, è solo per screditare le persone di valore – ovviamente diversissime da quelle del passato – che il presente può invece produrre, le stesse che temo mi tolgano spazio, facendo piazza pulita della mia mediocrità (per fare un esempio lontano da Murgia, quando Troppi paradisi e Il contagio di Walter Siti furono lodati da chi ne colse la novità, alcuni detrattori di Siti – parodizzando in modo involontario Midnight in Paris – li stroncarono furiosamente all’urlo di “mica siamo di fronte a Pasolini! Mica siamo di fronte a Moravia!”, non capendo che la cosa interessante era proprio quella, il fatto cioè che Siti fosse un’altra cosa).

Il mondo di Moravia, Morante e Pasolini, appunto, è stato spazzato via molti anni fa. Sono saltate la scuola, l’università, la politica per come le conoscevamo, sono saltati i giornali e i mediatori tradizionali.
È un mondo, per certi versi, più selvaggio, contraddittorio e inospitale. Ma è in questa giungla che Michela Murgia ha allestito un efficace, eccessivo, rischiosissimo (e spettacolare: nel bene e nel male) esperimento. È esistita in rete come nessuno prima in Italia, sui temi che ha affrontato. Si è mossa sì con consapevolezza, però tra codici e algoritmi in continua trasformazione.

Se essere intellettuali significa rischiare (di risultare insopportabili, inopportuni, indigeribili, scandalosi, rompicoglioni, divisivi; come se avere a che fare con Elsa Morante fosse facile. Come se fosse facile avere a che fare con Pier Paolo Pasolini, con Carmelo Bene, con Luciano Bianciardi, con Oriana Fallaci), chi lo è stato più di lei?

Se significa dare alla propria lotta e alla propria continua polemica nuove forme espressive, chi ci è riuscito di più? Se significa avere coraggio (non solo di dire cose impopolari ma anche, inevitabilmente, cercando una verità, di prendere una o più sonore cantonate, di vedere la propria logica collassare su sé stessa), chi ne ha pagato le conseguenze come lei?

Se significa restare soli nell’occhio del ciclone (un leader politico che attacca uno scrittore ha un apparato a proprio servizio; uno scrittore ha solo sé stesso), chi ne ha pagato il conto come lei? Se significa gestire il potere che deriva dall’avere un grande pubblico intrattenendo con il potere vero un rapporto complicato, allora intellettuale è stata Michela Murgia, i cui rapporti con gli editori, le radio, i giornali e le tv che le hanno dato spazio sono spesso stati a dir poco spigolosi.

Se essere intellettuali significa arrivare a infastidire un presidente del Consiglio, un ministro dell’Interno, usando solo le parole, come vogliamo chiamare una così? E se a quel presidente del Consiglio diamo più fastidio di quanto riescono a dargliene i partiti d’opposizione?

Cosa fa paura

Che paese è quello il cui governo trova negli intellettuali, più che negli altri leader politici, i propri veri avversari? Una cosa del genere sta succedendo in Germania, in Francia, in Gran Bretagna? Quale cartina di tornasole è stata, per l’Italia, Michela Murgia? (Nessuno che non lo abbia provato sa davvero come ci si sente – e cosa si rischia di diventare, nella tempesta di hater e fan – quando un leader politico dà ordine di attaccare uno scrittore; ma è anche lo sforzo d’astrazione, e di immedesimazione, a farci umani).

Infine, se da un certo punto in poi essere intellettuali ha significato in questo paese fare del proprio corpo uno strumento di lotta, di spettacolo, di attrazione, di repulsione, di irritazione, la pietra dello scandalo, quello è stato il corpo di Michela Murgia. (…)

Bisognava essere d’accordo con Murgia quando diceva che, in un sistema patriarcale, i maschi sono portatori di una colpa originaria? Bisognava essere d’accordo con Pier Paolo Pasolini quando proponeva di abolire la scuola dell’obbligo?
Bisognava essere d’accordo con Carmelo Bene quando sosteneva che, in un paese di pusillanimi, l’unica persona degna d’interesse era Totò Riina?

Bisognava essere d’accordo quando Oriana Fallaci attaccava l’islam?​​​​​​E quando lo faceva Michel Houellebecq? E quando Jean Genet faceva l’apologia del giovane criminale? E quando Aldo Busi parlava della sessualità dei ragazzini? E quando Jean Baudrillard definiva l’11 settembre “la madre di tutti gli eventi”? Perché non essere d’accordo non ci basta? Di cosa abbiamo davvero paura?

Ho frequentato Michela per 17 anni. Ricordo momenti di confidenza. Ricordo anche incomprensioni, poi ancora vicinanza. C’è stata di recente una lunga passeggiata a piedi, da Flaminio a Trastevere, nella notte di Roma. Non è stato un rapporto facile. Molte persone con cui ho avuto un rapporto facile le ho già dimenticate.


Il testo è un estratto da Le persone facili si dimenticano, Michela Murgia no, su Lucy agosto 2023 e poi in Un anno di storie 2023, Treccani

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