A che serve oggigiorno la filosofia? Dopo la fine dei sistemi e – per reazione – degli anti sistemi, verrebbe da dire che la sua funzione più evidente, o quantomeno più auspicabile e necessaria, dovrebbe essere quella di portare “flessibilità” dentro al discorso pubblico, generalmente molto poco duttile, ingessato e binario. Di tutto quello di cui si può dibattere – dalla guerra giù giù fino a una pesca – sembra sempre che l’obbligo sia quello di schierarsi, di dividerci in favorevoli o contrari.

Viviamo in una epoca in cui contano le opinioni e non le idee, e somigliamo tutti a quei partecipanti dei vecchi programmi anni 90 di Funari in cui l’essenza dello spettacolo era la divergenza delle posizioni (anche qui, massimi sistemi o quisquilie non faceva nessuna differenza).

E allora? Davvero alla dialettica si è preferito questo tipo di discussione che non mira alla verità (in genere più alta dei singoli contendenti che la ricercano) ma soltanto alla persuasione? Piccoli pubblicitari di noi stessi – mal indirizzati ogni sera dai talk show degli urlatori alla perenne ricerca del consenso – vogliamo solo avere ragione e mai torto (eppure basterebbe aver letto un filosofo atipico come Ennio Flaiano per sapere che «quelli che vincono non sanno cosa si perdono»). Se prima i filosofi – e tutte le discipline umanistiche – dovevano rafforzare la conoscenza, adesso mi pare che dovrebbero instillare il dubbio. È il dubbio che ci salva tra le opzioni da scegliere, che ci fa indugiare e riflettere, che ci mette al riparo parimenti da ideologie e sofismi. 

Così nel suo ultimo libro Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusaRizzoIi, la filosofa Michela Marzano sceglie un tema forte – lo stupro – ma lo “pensa” in una forma flessibile, la più flessibile di tutte, e cioè il romanzo, come se sapesse che questo dispositivo è infinitamente più preciso riguardo al dubbio (e alla flessibilità) rispetto a un’invettiva di taglio saggistico.
Così Marzano si sdoppia in Anna, la protagonista del suo romanzo, e insieme a lei è libera di esplorare non tanto le sue certezze, bensì le sue contraddizioni.

Hai scritto di un tema forte e rigido: lo stupro. Pensi che il romanzo sia uno strumento più flessibile del saggio per affrontarlo?
Il romanzo è più flessibile, sì, e poi permette di mostrare, raccontare, incarnare; seguendo la storia di Anna, il tema del consenso diventa scelta quotidiana, dubbi che impediscono a tratti di dormire, ma che poi nei dialoghi si sciolgono, anche grazie ai diversi punti di vista degli interlocutori. Dopo aver scritto per anni saggi, mi sono resa conto che la struttura «saggio» mi stava stretta, e che per provare a nominare le mille sfaccettature dell’umano avevo bisogno di raccontare una storia, dovevo diventare via via la voce narrante dei miei romanzi e seguirle nelle vicende della vita, senza avere preconcetti e senza imporre alcun punto di vista prefabbricato.

Anna, questa protagonista grimaldello attraverso la quale imposti il tuo discorso flessibile, subisce le attenzioni degli uomini fin da bambina. La descrivi inerme, un tratto che però sembra conservare anche per larga parte della sua vita adulta. Alla fine smette di colpevolizzarsi e persino di dare la colpa: ci parli di questa presa di coscienza? E come la definiresti?
Diciamo che, pian piano, Anna si rende conto di condividere con molte donne (tutte?) alcuni momenti in cui ha ceduto, pur non avendone voglia, oppure certi momenti in cui i suoi «no» – forse detti troppo piano o troppo tardi – non sono stati ascoltati, oppure anche quei momenti in cui ha consentito senza sapere esattamente a cosa stesse consentendo, magari illudendosi che dall’altra parte ci fosse amore, mentre di amore non ce n’era affatto (o ce n'era molto poco).
È così che Anna capisce che spesso capita a tante di aver bisogno di sentirsi importanti, preziose, e che il problema, forse, è proprio quello, visto che nessuna persona può diventare importante attraverso lo sguardo altrui, ma solo quando si riconosce e si prende cura di sé stessa. In fondo, la storia di Anna è la storia di un corpo-a-corpo con sé (e con i propri demoni), un corpo-a-corpo che la porta, progressivamente, alla consapevolezza del proprio valore.

Come in ogni buona storia che si rispetti Anna, oltre ai suoi oppositori, nel suo cammino incontra anche tanti aiutanti. Sono amici o figure di supporto che l’aiutano, Carlotta, Alice, la psicanalista, il fratello… Cosa impara Anna da ognuno di loro?
Impara le mille sfumature del consenso; impara a essere più assertiva; impara anche a perdonarsi per tutte le volte in cui ha ceduto. Con la propria psicanalista torna indietro nel tempo, quand'era bambina e troppo piccola per difendersi. Con Alice, condivide alcuni momenti di fragilità, e capisce che non è vero che «le altre riescono sempre a farsi rispettare», e che il vissuto di trasparenza è molto più comune di quanto immagini.
Con il fratello, impara che ci sono anche tanti uomini che lottano per la parità. Ogni personaggio, in fondo, serve a mostrare come la storia di Anna non sia solo la sua, ma quella delle donne della sua generazione e quella delle ragazze più giovani, quella delle donne della generazione di sua madre (che di certe cose non hanno mai osato parlare) e quella di tutti quegli uomini che, insieme alle donne, provano a vivere le relazioni affettive in maniera diversa rispetto agli stereotipi maschilisti.

Tra le varie digressioni che spezzano la linea narrativa di Anna c’è l’incursione negli scandali che hanno dato l’avvio al MeToo e nuova forza ai movimenti femministi. Non sei tenera però con le donne in cerca di pubblicità, le molestie vetrina, i danni ben risarciti…
Non sono tenera? Forse. Ma non sopporto né l’ipocrisia né la falsità né gli abusi, indipendentemente dal sesso o dal genere di chi mente, falsifica o abusa. Ad Anna, come a me, non interessa la guerra tra i sessi; per lei, è necessario dare voce alle vittime, schierarsi dalla parte di chi, le ingiustizie, le subisce, e cercare di ricostruire una grammatica delle relazioni affettive.

Forse la vera forza di Anna – e in questo credo che si faccia specchio e rappresentazione anche del potere della filosofia – è la continua ricerca di un dialogo con i suoi studenti di giornalismo. Comunicare ci salverà?
La filosofia è nata con il dialogo, anche se poi, purtroppo, è diventata altro. Forse è per questo che sono profondamente convinta che è attraverso il dialogo che si possono cambiare le cose e si può far emergere la verità. Noi, oggi, viviamo in un’epoca in cui l’ascolto è inesistente: chiunque monologa, senza mai fare spazio all’alterità altrui. Certo, aprirsi all’alterità attraverso l’ascolto significa accettare di rimettersi in discussione, e quindi non è mai facile. Ma senza ascolto c’è solo violenza; senza ascolto non è possibile nemmeno provare a riparare noi stessi o il mondo che ci circonda.

Non c’è possibilità di un altro incontro tra femminile e maschile che non sia molesto? E quanto possiamo evitare la violenza senza però cadere in una utopia stereotipata che ci proietterebbe in un mondo noiosissimo e asettico alla Barbie?
No, no! la storia di Anna cerca proprio di mostrare come l’incontro tra femminile e maschile non abbia nulla a che vedere con la molestia, e come la molestia, in fondo, sia solo il frutto di una cultura (cultura?) dello stupro. Non si tratta affatto di anestetizzare il desiderio, anzi, si tratta proprio di riconoscerne l’opacità, e quindi poi anche di ammettere l’impossibilità di ridurre il consenso a qualcosa di stereotipato, come il “consenso informato” in medicina. Quando si desidera, nessuno sa mai esattamente ciò che potrà scaturire da quel desiderio e da quell’incontro. Proprio per questo, però, è essenziale non smettere mai di ascoltare o di vedere chi ci è accanto. La molestia inizia quando l’altro è trattato come un mero oggetto, e non più come soggetto di desiderio.


Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa (Rizzoli 2023, pp. 288, euro 19) è un libro di Michela Marzano

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