Nel suo ultimo film, “Il sol dell'avvenire”, nella scena finale, in via dei Fori Imperiali, Nanni Moretti guarda in macchina e fa ciao con la mano. Ciao al pubblico, ciao a chi ha sfilato con lui, nel suo cinema, in questo scorcio di vita, i suoi primi settant'anni, in un sogno allegro, colorato, corale, vitale. Perché se la storia non si fa con i se, il regista grazie al cinema ha invece la possibilità espressiva di cambiare il copione prestabilito, di sfuggire allo stato di necessità che condiziona le scelte individuali e collettive.

In “Il sol dell'avvenire” lo stato di necessità costringe il Pci a stare dalla parte dell'Unione sovietica che invade l'Ungheria con i carri armati, nel 1956, e non degli insorti. Moretti organizza un finale diverso, anche se la base del Pci che credeva di essere «il paese onesto nel paese disonesto», come l'aveva dipinta Pasolini, non era affatto più innocente o più avveduta dei suoi dirigenti, semmai era più ottusa. Ci fu chi disse no a Togliatti, come Antonio Giolitti o come Italo Calvino che urlò in faccia a Giorgio Amendola a un attivo del partito: «Viva Gomulka!». Ma nel 1956 la base era contro Calvino e stava con Togliatti, con gli stalinisti che lasceranno in eredità la concezione della politica come rapporto di forza, quante divisioni hai, senza rapporto con la verità e con la libertà, pronto a reincarnarsi altrove, ovunque, anche a destra.

Piazza San Giovanni

Resta quel sogno di libertà che è il cinema di Moretti. Un calcio al pallone, un giro in Vespa nella Roma deserta di questi giorni di agosto. Il ciao di Nanni Moretti l'ho visto il 14 settembre 2002, quando cominciò il girotondo più grande. Ottocentomila, un milione, nella piazza San Giovanni dei funerali di Togliatti e di Berlinguer, senza bandiere, con i politici giù dal palco. Il più applaudito era stato però un uomo che alla politica aveva dedicato la vita. Vittorio Foa salutò il popolo con un gesto lieve, una benedizione laica e dolce: «Sento che c'è un futuro. È stata per me una giornata felice che non posso dimenticare».

Quel pomeriggio arrivò dopo mesi di manifestazioni e di passione. Dopo i primi girotondi attorno al palazzo di Giustizia e alla Rai, dopo il cosiddetto urlo di piazza Navona, il 2 febbraio 2002. Il finale a sorpresa di una manifestazione fredda e umida che i capi del centrosinistra avevano convocato per celebrare se stessi e che terminò alla rovescia. «Eccolo, eccolo...», applaudirono mentre Nanni Moretti saliva sul palco. Non aveva mai preso la parola. Sciarpa, loden, maglione e camicia a scacchi, all'inizio non tradì le attese: «Durante questa serata ho avuto momenti di ottimismo...», per poi aggiungere: «...ma devo dire purtroppo che avendo ascoltato gli ultimi due interventi anche questa serata è stata inutile!». Gli ultimi due, Rutelli e Fassino. «Si chiedeva un minimo di autocritica rispetto alla timidezza, alla moderazione, al non saper più parlare alla testa, all'anima e al cuore delle persone. Mi dispiace dirlo, mi dispiace davvero, ma con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai!».

Durò tre minuti e quaranta. Ricordo alla fine di aver visto la cravatta storta di Rutelli e il ghigno di D'Alema che mi parve esterrefatto e vagamente invidioso, forse l'invettiva avrebbe voluto farla lui. Sotto il palco tutti gridavano, anche Di Pietro: «Basta darsi martellate da soli!». Moretti sembrava sfinito, si allontanò, da solo.

Sette mesi dopo, in piazza San Giovanni, non c'era più l'urlo, ma un appello: «Ai dirigenti dico: non perdete tempo sul nulla, in continue e logoranti ripicche personalistiche. Abbiamo organizzato una manifestazione molto al di sopra delle nostre energie, ma voi ci avete travolto con la vostra voglia di tornare a fare politica. Io sono emozionato, non perdiamoci di vista!».

L’elogio della politica

Si ritrasse, nonostante in tanti volessero offrirgli un ruolo da capo-partito, lo auspicavano o lo temevano. Ma il suo era un congedo festoso, che nelle intenzioni doveva segnare il ritorno alla politica, l'opposto dell'anti-politica. Tutto il cinema di Nanni Moretti è un elogio della politica, della passione politica. Fin dal generico attacco al «malgoverno democristiano» del candidato negli esami di maturità di “Ecce Bombo”, che resta senza spiegazione. Il sol dell'avvenire di cartapesta nella scena finale di “Palombella rossa”. L'interpretazione del perfido ministro Botero in “Il portaborse”, il film di Daniele Luchetti che anticipava la fine della Prima Repubblica con le scorte, gli elicotteri, gli staff del leader, lo champagne, i maccheroni allo stracotto. I militanti del Pci nel documentario “La Cosa”, con la camera che coglieva le esitazioni e il candore: «Si pone l'obiettivo di costruire una cosa che è più grande e, se mi consentite l'espressione, più bella».

Il viaggio in vespa in “Caro Diario” fino all'Idroscalo sulle tracce di Pier Paolo Pasolini, «con Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori dal tempo, ma non ancora, in questo terribile paese che l'Italia è diventato, mutato in se stesso», scriveva Leonardo Sciascia. Il sindaco di Stromboli che anticipa il decennio successivo: «Ricostruire da zero Stromboli, ricostruire da zero l'Italia. Un nuovo modo di vivere, una nuova luce, nuovi abiti, nuovi suoni, un nuovo modo di parlare, nuovi colori, nuovi sapori... Tutto nuovo!». «Tutti i discorsi preparati e mai fatti, tutte le lettere scritte e mai spedite» ai dirigenti del partito in “Aprile” declamate da Moretti a Hyde Park: L'invocazione verso D'Alema, a dire qualcosa di sinistra o «anche non di sinistra, di civiltà». In quel film centinaia, migliaia di ombrelli sfilano sotto una pioggia incessante, il 25 aprile 1994 a Milano, dopo la prima vittoria e il primo governo della destra. è una delle rarissime scene in cui piove nel cinema di Moretti (un'altra è in “Sogni d'oro”, a segnare l'inizio della trasformazione di Michele in un licantropo).

Dopo l'incontro del 2002 tra i partiti e i movimenti, vincente perché nonostante tutto il centrosinistra di Prodi nel 2006 superò Berlusconi, torneranno tutti a chiudersi nei loro rispettivi recinti: i partiti del centrosinistra diventeranno più chiusi, più oligarchici, più perdenti, i movimenti più autoreferenziali, più ossessivi, più rancorosi. Partiti e movimenti si sono persi di vista, ma quello di Moretti era un atto di speranza, forse estremo.

Le profezie

Per questo, dopo, c'è l'incendio della democrazia in “Il Caimano”, che se non anticipa Berlusconi sicuramente preconizza l'assalto al Campidoglio di Trump. E soprattutto c'è il vuoto di “Habemus Papam”, la storia dell'anziano cardinale francese Melville, interpretato da Michel Piccoli, eletto a sorpresa papa, in fuga dalla nomina, nell'ultima scena ritorna in Vaticano, si affaccia dalla loggia di San Pietro, ma solo per comunicare al mondo che non ce la fa: «Chiedo perdono, la guida di cui avete bisogno non sono io. Io sento di non essere tra quelli che possono condurre, ma che devono essere condotti».

“Habemus Papam” uscì il 15 aprile 2011, anticipava di due anni il trauma imprevedibile delle dimissioni di papa Ratzinger. Ma la crisi non riguardava solo la Chiesa. In quell'inizio di decennio che si sarebbe concluso con la pandemia, il film di Moretti intercettava il cuore della crisi delle democrazie: l'inadeguatezza delle leadership, la depressione dei governanti speculare alla frustrazione dei governati, il potere impotente, assente, nevrotico, afasico. Il balcone vuoto. E la virtù, nascosta, della riluttanza. Il politico riluttante al potere di un politico, l'intellettuale riluttante alla parola, il regista riluttante all'immagine, quando è ripetitiva, banale, conformista, violenta, quando non è liberatoria. Di tutte le immagini del cinema di Nanni Moretti, la riluttanza alla leadership mi sembra la più politica delle lezioni e la più visionaria, la più carica di futuro, non di affastellamento ma di sottrazione, non di clamore ma di «straordinario splendore». Accanto a quel ciao che non chiude ma apre a infinite possibilità. Un gesto cinematografico, dunque, un gesto politico. Un gesto di liberazione.

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