Gli stadi italiani sono «i peggiori tra le cinque grandi leghe europee», ha detto il presidente della UEFA, Aleksander Čeferin. Parole che hanno suscitato un mix di orgoglio nazionalista e vergogna, in vista degii Europei 2032 che si giocheranno in Italia e Turchia. La carenza infrastrutturale del sistema sportivo italiano può diventare tuttavia una grande opportunità
Le recenti dichiarazioni di Aleksander Čeferin, presidente UEFA, secondo cui gli stadi italiani sono «i peggiori tra le cinque grandi leghe europee», hanno inevitabilmente scosso l’opinione pubblica, provocando in maniera ambivalente un pizzico di orgoglio nazionalista e un po’ di vergogna e timore, vista la necessità di adeguare gli impianti per Euro 2032.
Ciò che oggi è obiettivamente una carenza infrastrutturale del sistema sportivo italiano può diventare tuttavia una grande opportunità - se affrontata con visione - di rigenerazione urbana e sociale, e non solo per le grandi città come Roma, Napoli, Milano e Firenze.
Riabilitare il calcio di provincia
In maniera quasi sorprendente, è nelle città di provincia che questa trasformazione può trovare un terreno più fertile. È lì che il calcio non è solo spettacolo, ma lingua viva e condivisa. Nelle piazze di Frosinone, Arezzo, Siracusa, Cosenza, Ferrara, lo stadio ha un valore che va oltre la funzione sportiva: è identità, appartenenza, comunità.
Questi stadi hanno un comune denominatore: storicamente, nel periodo tra gli anni '40 e gli anni '80, gli impianti venivano costruiti nelle aree periferiche delle città, contribuendo indirettamente a orientarne lo sviluppo urbanistico. Oggi, tale logica si è invertita: la città ha spesso inglobato queste strutture, rendendo necessario ripensarne il ruolo all’interno del tessuto urbano consolidato.
Un esempio emblematico è l’introduzione del prefiltraggio a 500 metri dal perimetro dell’impianto, che consente di spostare i tornelli all’interno, restituendo spazio pubblico alla città e trasformando lo stadio in un elemento permeabile, integrato e accessibile. È questo il senso più profondo del modello dello stadio all’inglese: non soltanto per quanto concerne la disposizione delle tribune rispetto al campo, ma proprio per l’integrazione nel tessuto urbano della città.
In Italia esistono molti stadi all’inglese, ma ancora nessuno in grado di replicare il modello anglosassone di integrazione dell’impianto nel mosaico dell’abitato e dei servizi che offre.
Il caso Arezzo
Immaginiamo per un attimo cosa potrebbe diventare uno stadio se smettesse di essere una cattedrale chiusa per 340 giorni l’anno, e si trasformasse in un luogo pulsante, capace di ospitare eventi, servizi, cultura, educazione. Una piazza coperta, moderna e sostenibile. Quello che serve è visione, volontà amministrativa ma soprattutto una progettualità solida.
In questo solco si inserisce anche il progetto del nuovo stadio di Arezzo, fortemente voluto dalla Società sportiva Arezzo, a cui stiamo lavorando con M28studio. Non abbiamo immaginato di rifare un solamente l’impianto sportivo, ma di ridisegnare un pezzo di città: riqualificare un’area oggi marginale e restituire dignità e bellezza a uno spazio che deve tornare ad accogliere la comunità. Lo stadio aretino sarà compatto, accessibile, sostenibile, pensato per accogliere anche chi il calcio non lo guarda, ma ha bisogno di spazi pubblici, cultura, socialità. Uno stadio aperto tutto il giorno, tutti i giorni, tutto l’anno.
Uno stadio moderno, oggi, non è più un lusso: è una necessità. Un’opera pubblica travestita da impianto sportivo, un attivatore sociale progettato secondo un mix funzionale che vari a seconda delle esigenze specifiche e peculiari della cittadinanza e del territorio su cui insiste.
Rigenerare uno stadio deve significare contestualmente portare alla creazione di occupazione, stimolare mobilità sostenibile, ridurre il consumo di suolo. Significa offrire un punto di riferimento per scuole, famiglie, tifosi. In una parola: fare città.
costo per pochi o bene per molti?
Ma perché questo accada, serve anche un cambio di passo normativo e burocratico. Le recenti riforme, come l’estensione del diritto di superficie a 99 anni, vanno nella direzione giusta. Così come il ruolo crescente del Credito Sportivo nel sostenere i progetti. Il processo prevede garanzie sia tecnico-progettuali (deposito di progetto definitivo ed esecutivo), sia economico-finanziarie (sottoscrizione di un PEF – Piano Economico Finanziario – controfirmato da un istituto di credito), garantendo certezze su tempi, strumenti e benefici per l’amministrazione comunale.
In questo senso, il nuovo Decreto Stadi, fortemente voluto dal Ministro Abodi e pronto ad essere varato nelle prossime settimane, potrebbe davvero segnare un punto di svolta nel tema stadi. Il vero salto, però, si compirà quando smetteremo di considerare lo stadio “un costo per pochi” e inizieremo a vederlo come “un bene per molti”.
Siamo a un bivio: possiamo lasciare che il calcio locale declini sotto il peso di impianti fatiscenti, oppure cogliere l’occasione — forse irripetibile — per trasformare ogni città in un laboratorio di futuro. E il futuro, oggi più che mai, si gioca fuori dal campo tanto quanto dentro.
Se vogliamo davvero rilanciare il calcio italiano, non possiamo limitarci a parlare di moduli e risultati: dobbiamo iniziare a costruire, letteralmente, le fondamenta.
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