Individuare una traiettoria chiara nel centrodestra in vista dell’elezione del presidente della Repubblica è impossibile. Negli ultimi tre mesi le dichiarazioni del leader della Lega, Matteo Salvini, contraddicono quelle della segretaria di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, mentre quelle di Silvio Berlusconi sono un crescendo di equilibrismi. Non aiutano a mettere ordine nemmeno le parole dei rispettivi generali, che di solito sono abili a dare l’interpretazione autentica delle metafore utilizzate dai capi. I nomi che si ripropongono ciclicamente sono sempre gli stessi: il candidato di bandiera Berlusconi, o il presidente del Consiglio che libererebbe così la casella di palazzo Chigi, Mario Draghi.

A farli piroettare nelle parole dei vertici è un valzer di variabili. Ogni nome, infatti, è seguito da “se” e “ma” che restituiscono tutta la confusione di un passaggio che per la prima volta nella storia della repubblica è così carico di significati politici da far ipotizzare ricadute pratiche sul governo e sulla durata della legislatura.

La svolta di settembre

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Il primo passaggio cruciale è quello di settembre. Prima, anche gli stessi vertici di Forza Italia ipotizzavano il passaggio di Draghi al Colle, come aveva detto e ha ripetuto in varie sedi pubbliche il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta. A fine mese, invece, il ritorno prepotente sulla scena politica di Silvio Berlusconi ha fatto maturare quel che in molti già sussurravano: il Cavaliere vuole provare la corsa al Colle.

Per farlo vola a Bruxelles per confrontarsi coi vertici del Partito popolare europeo. Poi riceve nella sua nuova residenza romana i due altri leader, da padre nobile del centrodestra che si sente di essere. Infine colloquia un po’ con tutti, alza il telefono per contattare tutti i parlamentari, anche quelli di altri schieramenti, e inizia a contare i voti.

Movimenti per nulla nascosti, tanto che sia Meloni che Salvini non possono che seguirlo e riconoscergli il ruolo di candidato in pectore. Di bandiera, secondo loro. Perfettamente in gara, secondo il diretto interessato.

Scaturisce un profluvio di retroscena, alimentate anche da Salvini che parla di «candidatura da prendere in considerazione» e da Meloni che dice che «Berlusconi, sulla difesa della sovranità italiana, da presidente della Repubblica sarebbe una garanzia». il “ma”, però, è dietro l’angolo: entrambi sanno che il Cavaliere è un candidato indigeribile per il centrosinistra e il Movimento cinque stelle, quindi non si spingono lai oltre il verbo al condizionale.

Il cambio di ottobre

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L’armonia si infrange dopo poco, però. Comincia la stessa Meloni, che torna parzialmente indietro dicendo che «Berlusconi non ha quotazioni altissime». A cui fa seguire una dichiarazione che spiazza tutti, all’indomani della sconfitta alle amministrative dei candidati sindaci: «Il centrodestra è d’accordo sul fatto che Mario Draghi potrebbe essere un buon presidente della Repubblica e che in quel caso si potrebbe tornare a votare subito».

Ecco allora che si introduce il “se” determinante, ovvero la variabile che condiziona l’elezione al Colle: che quello sia l’ultimo atto del parlamento attualmente in carica, per poi tornare alle elezioni. Meloni spinge per questa soluzione e considera Draghi al Quirinale il modo migliore per ottenerla.

L’esatto contrario di Salvini, il quale a settembre diceva che «se si candida, pieno sostegno a Draghi» ma dopo l’esito negativo delle amministrative e il testa a testa interno con Fratelli d’Italia preferisce allontanare il voto. L’accelerazione in direzione delle urne imposta da Meloni compatta i due alleati al governo. Forza Italia non ha mai fatto mistero di non volere il ritorno al voto e, anzi, proprio la garanzia di un proseguimento della legislatura è la carta vincente della candidatura di Berlusconi.

Anche la Lega, e in particolare i suoi ministri, ha anestetizzato il dibattito sul voto anticipato. A fine mese, terminati i ballottaggi di Roma e Torino con una sconfitta del centrodestra, si svolge la rimpatriata in casa Berlusconi a villa Grande. Lì il vecchio leader ricuce i rapporti e da quella riunione ritorna la soffiata iniziale: il Cavaliere è il candidato comune del centrodestra, che ora lavora per ricompattare l’alleanza.

La torsione di novembre

Novembre, però, è il mese del ripensamento. A mandare in tilt la fragile armonia ritrovata è l’intervista del ministro leghista Gianfranco Giorgetti nel libro di Bruno Vespa, in cui dice non solo che Draghi dovrebbe traslocare al Colle, ma che da lì potrebbe continuare a guidare l’esecutivo con un «presidenzialismo de facto». La dichiarazione provoca una mezza crisi nella Lega, la rabbia di Salvini e la convocazione di una assemblea federale al coltello in cui il ministro torna sui suoi passi, almeno formalmente.

Berlusconi, da bravo maratoneta, manda segnali di frenata della sua corsa: spiega che «mi hanno chiesto di essere candidato» ma si rifiuta di parlare per rispetto a Mattarella. Il suo unico punto fermo rimane, in ogni caso, il no alla fine della legislatura e su questo ottiene facile convergenza di tutti i suoi ministri e parlamentari. Tanto che Meloni, a inizio mese, torna a parlare di un «passo indietro di Berlusconi». Per poi spiegare però, appena qualche giorno fa, che «c’è il nostro sostegno a Berlusconi se si candida». 

A cambiare linea, però, è anche Salvini: a inizio mese dice che la Lega «è pronta al voto anticipato» e si rimette in scia competitiva con Meloni. Ieri, invece, l’ennesimo cambio: «Draghi sta lavorando bene, spero che rimanga a lungo a palazzo Chigi», ha detto riprendendo le dichiarazioni di Berlusconi (sempre più all’opera per trovare voti nel gruppo misto) che promuoveva il governo in carica chiedendone la prosecuzione «fino al 2023».

Cosa voglia fare il centrodestra al momento dell’apertura dell’urna quirinalizia, è quindi più fumoso che mai. Di certo una linea condivisa ancora non c’è, se non un accordo di massima a considerare Berlusconi per lo meno un candidato di bandiera. Di più è impossibile dire, se non che la fine della legislatura è un auspicio solitario di Meloni. L’altra certezza è che, in caso di candidatura di Draghi, anche il centrodestra si troverebbe costretto a votarlo. Con Draghi fuori partita e quindi la legislatura al sicuro, invece, tutto potrebbe succedere.

 

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