«Non voglio partecipare a polemiche che penso danneggino l’Italia», ha detto questo lunedì il commissario europeo Paolo Gentiloni.

Poche parole, ma che dicono tanto, visto che in questa vicenda è il governo Meloni a fare le polemiche, e quindi i danni.

Prima il ministro – e leader leghista – Matteo Salvini, poi il ministro – e leader di Forza Italia – Antonio Tajani, e come se non bastasse, la premier in persona – e presidente dei Conservatori europei – hanno preso a scagliarsi contro il commissario agli Affari economici, con il quale per mesi avevano avuto relazioni – per così dire – costruttive.

L’operazione, sinergica e quindi concertata, rientra a prima vista nel solito schema: quando la campagna per le europee e i fallimenti di governo incalzano, allora – come da manuale – si usa Bruxelles come scapegoat, come scaricabarile.

In questo caso però la via scelta per scrollarsi di dosso i fallimenti è essa stessa un fallimento: per il suo tiro al piccione, il governo Meloni ha scelto una colomba.

La riforma del Patto di stabilità è infatti un dossier che il commissario italiano agli Affari economici ha dovuto condividere con Valdis Dombrovskis, e solo chi non conosce le dinamiche di Bruxelles – o chi a Roma è in mala fede – ignora che tra i due è il lettone, il falco del rigore.

«Il commissario sembra straniero», ha detto Salvini (e in effetti i commissari dovrebbero sembrarlo, e restare indipendenti dai governi). «Mi auguro che Gentiloni non sia rigorista», ha continuato Tajani (e ha omesso che gli equilibri negoziali dipendono dalle capacità o meno del governo in Consiglio).

«Su Lufthansa–Ita abbiamo interessato Gentiloni», ha proseguito Meloni (e ha aggiunto una sgrammaticatura ulteriore perché non è lui il commissario competente).

Il tiro alla colomba

La campagna per le europee è iniziata, il bersaglio preferito Frans Timmermans non è più in Ue, Manfred Weber rassicura l’opinione pubblica tedesca ventilando la continuazione della Große Koalition coi socialisti, schema che peraltro Gentiloni auspica.

Intanto il governo non ha margini sui conti, è sbugiardato sui migranti, insomma si può comprendere come mai ci sia agitazione: succede quando i margini di manovra si riducono, e ci si dimena.

Ecco allora Salvini che porta Marine Le Pen sul palco di Pontida, o Meloni che va da Viktor Orbán, come quando si è in difficoltà e si torna in famiglia.

Peccato che in questa campagna elettorale anticipata il governo abbia tralasciato una cosa: attaccare proprio il commissario che ha spinto per l’allentamento dei vincoli non pare una gran mossa.

Era già successo con la Francia: l’agitazione comunicativa della destra aveva innescato una crisi diplomatica sul caso della Ocean Viking. L’esperienza insegna, ma Meloni impara?

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