Ora che il governo Meloni deve confrontarsi con i propri problemi a far quadrare i conti, ecco che sfodera l’alibi europeo: il fantasma del patto di stabilità. Già è un bluff dare la colpa alla Ue per dissimulare le proprie difficoltà. Ma stavolta il bluff è doppio. La verità è che lo stesso governo Meloni ha già barattato la riforma del patto e altri dossier economici cruciali in cambio di qualche scampolo di propaganda.

Mentre la Germania dirottava la riforma del patto in direzione di una maggiore austerity, la premier Meloni si affannava sulla missione tunisina, che oggi – con gli sbarchi più che raddoppiati – appare per ciò che già era: un altro bluff. E quando Berlino e Parigi hanno ottenuto il via libera sugli aiuti di stato – un allentamento dei vincoli i cui effetti «non sono uguali per tutti», come sa e dice il ministro Fitto – la leader di Fratelli d’Italia ha ventilato come risarcimento un fondo sovrano europeo. Che non c’era davvero, né ci sarà.

Dal primo giorno del suo insediamento a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ha avuto l’occasione formidabile di incunearsi nel duo francotedesco; e l’ha subito dilapidata. Dove accadono le cose che contano, Meloni non c’è; è in Tunisia magari, o in Albania. L’unica reale priorità di questo governo al tavolo europeo è che la Commissione sia permissiva su due fronti: la propaganda – migranti inclusi – e i soldi del Pnrr.

Il patto e le fanfare

«Siamo reduci da anni in cui abbiamo dimenticato il convitato di pietra: il patto di stabilità. Se non si trova un accordo sulla riforma, c’è il rischio che subentrino le vecchie regole da gennaio». Raffaele Fitto è il pontiere che ha imbastito la cooperazione dei meloniani coi popolari europei.

Nell’autunno 2021 l’alleanza tattica era già in lavorazione, in vista delle elezioni di metà mandato dell’Europarlamento. E in quei giorni Manfred Weber, l’interlocutore per eccellenza di Fitto, andava a dire nei summit del Ppe – pure in quello di settembre a Roma – che dopo la pandemia bisognava tornare alle vecchie regole del patto di stabilità, senza allentamenti. Lo spauracchio che oggi Fitto agita, è lo stesso che il suo alleato da sempre auspica. Ma c’è di più.

È vero, come dice Fitto, che se non si approva la riforma in tempi utili, si torna ai vecchi schemi; ma pure la Bce chiede di affrettare l’iter per evitare «incertezza». La vera sfida politica sta nei contenuti della riforma, anche se questo i ministri meloniani a Rimini evitano di sottolinearlo: il governo Meloni la considera una battaglia persa. Eppure è decisiva, specialmente per l’Italia.

Già la proposta iniziale della Commissione Ue, che risale a novembre 2022, non cancellava l’austerità, la rendeva solo più dialogante; ma nei mesi del governo Meloni i falchi del governo tedesco hanno persino peggiorato la cornice del negoziato sulla riforma. Hanno lanciato un assalto che Roma ha di fatto subìto. Nel patto 2.0 resta la tagliola della spesa pubblica per i paesi con un debito fuori dalla soglia, anche se i governi possono concordare assieme a Bruxelles piani pluriennali su come ridurre il proprio indebitamento.

Meloni ha predicato che «serve più crescita, non solo stabilità» ma nessuna golden rule per gli investimenti è stata recepita. Il poco peso negoziale che si è conquistata, la premier l’ha bruciato per la propaganda sui migranti; e i suoi ministri, per poter risolvere a modo loro il cubo di Rubik del Pnrr.

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