Il primo gennaio del 2002 entra in circolazione l’euro. Qualche anno dopo - è il 2011 - un uomo vestito di tutto punto si mette alla guida di un corteo funebre. Quell’uomo è Nigel Farage e il corteo funebre, con tanto di bara, è per l’euro. A venti anni di distanza dal giorno in cui gli europei prendono in mano le nuove banconote, quella sfilata no euro si conclude con un esito paradossale: a finire sepolte sono le istanze euroscettiche, non certo la moneta unica.

(Nigel Farage fa il funerale all'euro nel giugno 2011. Foto AP)

Matteo Salvini si è tolto la maglietta «Basta euro» e da una posizione di governo gestisce le risorse del Recovery. Giorgia Meloni che una volta mobilitava i supporter al grido di «no euro» oggi da presidente dei Conservatori europei è in cerca di credibilità e stempera i toni. Il movimento fondato da Beppe Grillo, che raccoglieva firme per il referendum anti euro, bussa da tempo alle famiglie politiche più europeiste in cerca di una nuova casa nell’Unione. Marine Le Pen è sorpassata a destra da Éric Zemmour e il sogno di un nuovo gruppo sovranista europeo è finito impaludato questo dicembre a Varsavia.

Nigel Farage, padrino no euro in un’isola che l’euro non l’ha mai adottato, può dire di aver ottenuto Brexit, ma oggi ha ripiegato su altre battaglie: quella contro i lockdown è il suo nuovo grimaldello per riscuotere consenso.

I movimenti populisti di destra che puntavano tutto sull’uscita dall’Eurozona adesso si scuotono di dosso i vecchi ricordi per ripulirsi l’immagine, accreditarsi davanti all’establishment europeo. E gestire proprio gli euro che l’indebitamento comune inietta nelle casse nazionali.

La tripla giravolta della Lega

«Per inseguire i soldi del Recovery e i sentimenti della gente, anche Salvini ora si atteggia a europeista», è la sintesi del liberale Guy Verhofstadt.

Da pro euro ad anti euro, e poi da no euro a sedicente europeista: i riposizionamenti della Lega nei confronti della moneta unica cominciano da prima che la moneta circoli, con Umberto Bossi, e continuano oggi, con Matteo Salvini.

(Umberto Bossi nel 2001. Foto AP)

Nella Lega dei primi tempi, «Bossi giustificava la sua idea di secessione sostenendo che il Nord Italia poteva entrare nell’Eurozona, e lasciare la lira al Sud», dice Lynda Dematteo, l’antropologa dell’Ehess autrice nel 2007 della prima grande indagine etnografica sul popolo leghista, L’idiotie en politique. Subversion et néo-populisme en Italie. Negli anni Novanta «l’imprenditoria nel nord est va alla grande e la Lega è a modo suo europeista: sostiene che il nord è per natura europeo e che il sud è Africa settentrionale. Un discorso razzista. Ma la speranza pragmatica era che lasciando la lira al meridione le fabbriche sarebbero rimaste lì invece di partire verso la Romania».

Poi però l’euro arriva davvero. Gli imprenditori settentrionali, lo zoccolo duro leghista, perdono il vantaggio all’export che avevano, con la lira, sui paesi del nord Europa. «In quel momento lì, cioè nel 2002, la Lega diventa anti moneta unica e sviluppa la retorica contro Bruxelles; un discorso fortemente populista perché fa leva sul sentimento di molti italiani di aver perso potere di acquisto con il passaggio alla moneta comune». Quel discorso anti euro accomuna l’ultimo Bossi e il primo Salvini.

Il punto di saldatura evidente è l’anno del passaggio di consegne: nel 2013 il senatùr secessionista dice «va bene, basta euro» e passa il testimone come segretario a Salvini, che avvia il partito verso la mutazione sovranista a colpi di comizi anti euro.

«L’euro è stato inventato per massacrarci!»: Salvini al No euro day nel 2013. «Basta euro, moneta della fame!»: sempre il segretario, a Pontida nel 2014.

«Basta euro» diventa lo slogan della Lega alle europee 2014, c’è pure il «Basta euro tour», e oltre allo slogan l’elemento ricorrente sono due figure: Claudio Borghi e Alberto Bagnai. Nel 2018 Salvini annuncia la candidatura di Borghi, scelto quattro anni prima come responsabile Economia del partito, e dell’economista Bagnai, «il cui libro Il tramonto dell’euro mi ha aperto un mondo», per rassicurare «sulla linearità della posizione della Lega sull’Ue».

Ma la Lega di governo tanto lineare non si rivela. Già in quel 2018 del primo governo Conte, si barcamena: «Non ho mai detto che uscire dall’euro ci costerebbe troppo», è costretto a smentire Salvini quando Lilli Gruber lo incalza.

Finita l’esperienza coi Cinque stelle, altri scossoni di riposizionamento avvengono un anno prima della nascita del governo Draghi. Uscire dall’Ue e dall’euro? «Se io dico che non usciamo, non usciamo. Punto». A parlare è Giancarlo Giorgetti, nel febbraio 2020. C’è lui a fare da contrappeso e moderatore ai vecchi impulsi euroscettici, e l’anno dopo – febbraio 2021 – la mutazione definitiva della Lega si compie con l’ingresso nel governo Draghi, con i fondi del Pnrr da gestire e Giorgetti ministro.

Oggi Borghi ha ancora come foto di copertina di Twitter le vecchie lire, Bagnai è responsabile Economia della Lega. Ma al governo con Draghi, etichettato da molti come «il salvatore dell’euro», gli argomenti no euro della Lega che fu sono ormai sepolti dietro a un alibi: cambiare l’Europa da dentro. «Draghi dopo secoli ci farà vedere un italiano che va in un vertice Ue a dire agli altri cosa fare»: Borghi, febbraio 2021.

La mutazione di Grillo e Meloni

Anche nel caso dei Cinque stelle, la vocazione di governo trasforma il movimento: da anti sistema e anti euro, a europeista e di sistema. Oggi i grillini euroscettici sono stati messi ai margini, ma agli esordi il primo a sventolare la bandiera anti euro era Beppe Grillo in persona.

(Beppe Grillo raccoglie firme per un referendum di uscita dall'euro nel dicembre 2014. Foto AP)

C’è un prima e un dopo. Nel 2014, quando i Cinque stelle forti del 21 per cento di voti fanno il loro primo ingresso all’Europarlamento, Grillo, che vuole «aprire il parlamento come una scatola di tonno», apre un sodalizio con Nigel Farage, che vuol fare «la volpe nel pollaio» della politica britannica. I due sono uniti da una retorica antieuropeista e ovviamente anche anti euro. Nel 2014 Grillo sceglie Bruxelles per lanciare un referendum sull’uscita dall’euro: «In sei mesi raccoglieremo milioni di firme. Ve lo giuro sui miei figli: chi in pubblico difende l’euro, in privato dice uscitene il prima possibile».

Ma va a finire che invece di uscire gli italiani dall’euro, escono i no euro dal movimento. Gli scossoni di riposizionamento sono chiari nel 2017, quando «ho discusso del possibile ingresso nel gruppo liberale con Casaleggio e gli europarlamentari», dice Guy Verhofstadt. L’ipotesi dei Cinque stelle dentro quel gruppo, all’epoca Alde, oggi Renew, era la nemesi dei no euro: Verhofstadt è non solo europeista, ma pure federalista. Una rivolta di liberali indignati fermò il piano: «Beppe è antieuropeo», tuonavano.

Il 2019 è l’anno in cui il Movimento vota la fiducia a Ursula von der Leyen e il governo Conte II segna il passaggio definitivo: c’è Conte a negoziare per Next generation Eu, il piano no euro è ormai old generation. In Ue i Cinque stelle votano ormai in sintonia coi socialdemocratici, europeisti. A parlare contro la moneta resta chi è ormai fuori dal movimento: Gianluigi Paragone, che a luglio 2020 ha fondato il suo partito «Italexit»; Alessandro Di Battista, che ricorda «che male ha fatto», salvare l’euro, «alla gente in Grecia».

Anche Giorgia Meloni ha fatto dell’uscita dalla moneta una sua battaglia, ma questo anni fa. Nel 2014, quando assume la presidenza di Fratelli d’Italia, arringa la base parlando di «una destra popolare» che faccia «uscire il nostro paese dall’euro».

Ma da quando assume un’altra presidenza, quella del partito conservatore europeo nel 2020, cambia priorità: assumere il patentino di governabilità in Europa. Infatti Fratelli d’Italia fa lo sgambetto a chi, Salvini e Le Pen inclusi, tenta la rincorsa verso un nuovo gruppo sovranista.

Altri «anti»

(Sodalizi populisti nel maggio 2014, con Matteo Salvini, Harald Vilimsky del Fpoe austriaco, Marine Le Pen vincitrice in Francia delle europee di quell'anno, e l'olandese Geert Wilders. Foto AP)

Venti anni dopo l’arrivo dell’euro nelle nostre tasche, il principale sabotatore dei movimenti anti moneta unica è il piano di ripresa comune. Con Next generation Eu, la destra populista punta a gestire i fondi, dice di voler «cambiare l’Europa da dentro», ma da dentro ha anzitutto cambiato se stessa.

Marine Le Pen, dopo aver dediabolizzato il Rassemblement national, è ormai superata a destra da Éric Zemmour.

Geert Wilders, l’estremista di destra che voleva portare l’Olanda, paese fondatore, fuori dall’Europa, ha cambiato definitivamente il panorama politico del suo paese, che però è ancora saldo nell’Ue.

(Geert Wilders taglia via l'Olanda dalla bandiera europea nel maggio 2014. Foto AP)

Nigel Farage dopo Brexit catalizza il dissenso contro le restrizioni Covid. Prima c’era l’euro, poi l’immigrazione; in tempi di pandemia, per i populisti di destra, è il lockdown l’ultima frontiera dell’anti.

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