In tempi non lontani sono apparsi più volte divisi su Gaza e sull’attitudine da avere con Netanyahu. L’idea dell’indebitamento comune ad alcuni di loro può far storcere il naso. Se c’è una cosa sulla quale invece i capi di stato e di governo, riuniti fino a venerdì in Consiglio europeo, paiono procedere lineari come una biglia su un piano inclinato, è la spinta a iniettare più soldi pubblici all’industria militare.

Su questo punto Emmanuel Macron è andato a Berlino a pattuire un accordo col cancelliere tedesco. Su questo stesso punto vanno all’unisono popolari e socialisti. Parafrasando quell’espressione dei politologi, la sindrome del rally ’round the flag (la stretta attorno alla bandiera, alla nazione e ai leader a fronte di una guerra, con l’effetto di silenziare le critiche), pare che l’idea, della guerra, ovvero lo zelo verso l’industria militare, stia davvero compattando governi e famiglie politiche solitamente ben più litigiosi. Persino l’aspirante inquilino della Casa Bianca Donald Trump e l’ex presidente americano Barack Obama, agli antipodi dello stile e dell’asse politico, esprimono un simile concetto: europei, investite di più nella difesa.

E va bene che questo giovedì l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, si sia premurato di ricordare pubblicamente che «non bisogna impaurire la gente, la guerra in Europa non è imminente». Ma quanto pesa questo promemoria se poi lo stesso Borrell firma editoriali con il commissario Ue all’Impresa, Thierry Breton, per accodarsi alla linea macroniana della «economia di guerra»?

Spese comuni di difesa

Questo venerdì i leader europei continuano a parlare di difesa. Il governo italiano è «convinto» che i frugali si arrenderanno all’idea di «eurobond» per la difesa, e anche il grande alleato di Giorgia Meloni nel Ppe, il premier greco Kyriakos Mitsotakis, si è detto favorevole ai bond comuni «allo scopo esclusivo» di sostenere l’industria della difesa.

Questa dell’indebitamento comune è anche la strategia francese: Emmanuel Macron ne ha parlato la scorsa settimana con Olaf Scholz, e sempre l’Eliseo vede in Mario Draghi una figura che potrebbe promuovere proprio questa strategia di distribuzione tra paesi europei del carico della spesa a favore dell’industria.

Sulle modalità, tra i vari governi possono esserci diverse sfumature. Ma c’è un allineamento astrale di volontà politiche sull’idea in sé di foraggiare i colossi dell’industria militare.

A inizio marzo la Commissione a guida Ursula von der Leyen, che è in campagna elettorale per i popolari europei, ha lanciato un pacchetto per «spendere di più e meglio», nel quale si palesa che i test già avviati con la guerra in Ucraina – come lo strumento “Asap” sulle munizioni – erano esperimenti per soluzioni più strutturali. Tra queste soluzioni c’è l’idea di appalti congiunti, con von der Leyen che prefigura una sorta di bis rispetto a quanto ha fatto coi contratti dei vaccini.

La minaccia di Trump di abbandonare gli alleati europei così come il caldo invito dei democratici Usa a spender di più sono stati l’innesco perfetto per il Ppe in cerca di consensi tra i suoi grandi elettori – gli imprenditori – così come per Macron, che pensa alle multinazionali delle armi. Finora il fondo europeo per la difesa ha avvantaggiato pochi grandi paesi (tra i quali il nostro, e il duo franco-tedesco) e multinazionali, come Leonardo, Indra, Safran, Thales e Airbus.

«Abbiamo già cominciato a invertire la politica dei vantaggi economici della pace che ha fatto seguito alla Seconda guerra mondiale; ora dobbiamo produrre e investire di più in difesa», dicono all’unisono il liberal-macroniano, ex manager, Thierry Breton, e il socialista spagnolo, Alto rappresentante Ue, Josep Borrell. I due – non da soli – invocano pure un cambio di politiche da parte della Banca europea degli investimenti, che attualmente ha nel suo dna di non poter investire in armi; del resto lo stesso progetto politico europeo si basava sul disinnesco della guerra.

Sull’idea di irrobustire le spese per l’industria militare sono invece oggi d’accordo non solo i popolari, né solo i liberali, che hanno inserito proprio questa come la propria priorità per le europee, ma anche i socialisti; lo ha detto Olaf Scholz al congresso di Roma, e vanno a dirlo falchi come la premier danese Mette Frederiksen, che a tale scopo è pronta a sacrificare il welfare.

Da Kiev a Gaza

«Incentivare gli appalti comuni» è tra i punti inseriti nella bozza che sarà suggellata a fine vertice. Questo giovedì Volodymyr Zelensky ha caldeggiato «più aiuti», durante la discussione sull’Ucraina. «Evitiamo doppi standard per Ucraina e Gaza», ha ammonito il segretario generale Onu António Guterres, presente a Bruxelles. Da agenda, non senza tratti paradossali, i leader dovevano discutere «dei rischi della fame a Gaza durante un pranzo con Guterres, e poi ridiscuterne a cena».

A ogni modo mercoledì gli Stati Uniti – che per mesi hanno osteggiato in sede Onu le bozze altrui che chiedevano il cessate il fuoco immediato – hanno presentato una loro proposta: «Il Consiglio di sicurezza determina l’imperativo di un cessate il fuoco immediato e prolungato». Giorgia Meloni ha espresso «preoccupazione per l’ipotesi di un intervento di Israele a Rafah».

Anche se questo giovedì i 27 hanno espresso un corale supporto a Guterres, le posizioni restano frastagliate, pure tra gli stessi vertici Ue. Borrell ha stigmatizzato la «missione navale umanitaria» di von der Leyen («una sola nave… meglio di niente») e già a inizio settimana ha chiesto ai governi se non fosse il caso di sospendere, almeno in parte, l’accordo di associazione tra Ue e Israele visto il massacro in corso e visto «il freno israeliano agli aiuti umanitari».

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