L’espressione “economia sociale di mercato” ha conosciuto ampia diffusione nel discorso pubblico europeo, per il suo richiamo esplicito nel Trattato di Maastricht e per la centralità della Germania sul piano dei rapporti di forza economici e politici.

In questo secolo, l’esempio dell’economia sociale di mercato è stato usato soprattutto per indicare le riforme economiche volte ad aumentare la competitività. Un esempio rilevante nella politica europea è la cosiddetta Agenda 2010 di Gerhard Schröder. L’allora cancelliere, presentando al Bundestag il suo programma di riforme, afferma in modo esplicito che il paese deve gestire la modernizzazione dello stato sociale per non limitarsi a subire il suo svuotamento, che sarebbe avvenuto in ogni caso: «O ci modernizzeremo come un’economia sociale di mercato, o saremo modernizzati da forze del mercato senza controllo che metteranno ai margini le considerazioni sociali».

Nel 2008, poco prima della crisi finanziaria globale, Angela Merkel ricorda il concetto di economia sociale di mercato e uno dei numi tutelari della ricostruzione tedesca, il ministro e poi cancelliere Ludwig Erhard, accentuando l’importanza della formazione e dell’istruzione per raggiungere nel nuovo secolo il famoso obiettivo di Erhard, la diffusione del benessere.  

Nel 2014, Angela Merkel si reca a Jena per visitare la Fondazione Zeiss, per celebrare i 125 anni della realtà fondata nell’Ottocento da Carl Zeiss ed Ernst Abbe e poi divenuta un simbolo della divisione tra le due Germanie, con la divisione in due aziende durante la guerra fredda, una rimasta all’est e l’altra ricollocata all’ovest grazie al trasferimento di alcuni scienziati e ricercatori, favorito dagli Stati Uniti.

Reinvenzione industriale

Una statista con formazione e competenza scientifica come Merkel esamina con interesse i prodotti di ottica, dalle lenti ai telescopi agli specchi, che hanno reso possibile quella straordinaria storia. Un evento quasi toccante per la cancelliera, tra scienza e politica. «La storia della Germania si riflette anche nella storia della vostra fondazione e della vostra azienda», dice nel suo discorso, indicando nel percorso di Zeiss la forza dell’economia sociale di mercato.

Zeiss, segnata fin dall’Ottocento da innovazioni sociali della fondazione ammirata da Adriano Olivetti, è giunta in tempi recenti ad abbracciare Industria 4.0, il programma sulla digitalizzazione della manifattura lanciato in Germania e imitato in tutto il mondo, con cui la potenza economica tedesca ha mostrato una leadership intellettuale.

Nello sviluppo dell’industria tedesca, in questo secolo, c’è anche questa capacità di reinvenzione. Asml, l’azienda olandese che domina i macchinari sui semiconduttori, ha come due fornitori principali due grandi aziende tedesche. Oltre a Zeiss c’è Trumpf, azienda di Ditzingen (Stoccarda) nata nel 1923, che fattura oltre 4 miliardi e che alla tradizionale linea dei macchinari ha affiancato dagli anni Settanta e Ottanta la ricerca e la produzione di laser, utilizzati anche nella litografia ultravioletta estrema.

Stato forte, economia ordinata

Ma cos’è l’economia sociale di mercato? Il concetto è così diffuso e celebrato da rischiare di essere avvolto da una coltre di ambiguità. È utile considerare le sue radici storiche e filosofiche, e quindi la teoria di cui l’economia sociale di mercato è il programma politico: l’ordoliberalismo.

Una guida preziosa, in questo senso, è fornita dall’approfondita ricerca di Lorenzo Mesini, Stato forte ed economia ordinata. Storia dell’ordoliberalismo (1929-1950) (il Mulino, 2023). Mesini, giovane diplomatico italiano con un dottorato di ricerca alla Scuola Normale Superiore di Pisa, analizza gli autori e gli intellettuali tedeschi che portano all’elaborazione di una teoria che risponde inizialmente alla tempesta politica della Germania dopo la Prima guerra mondiale, nella crisi della Repubblica di Weimar. Non si può capire la nascita dell’ordoliberalismo senza il 1929, e senza il tentativo di alcuni intellettuali, tra cui Eucken, Röpke, Rüstow, di trovare una risposta alla crisi tedesca distinta dalle strade tracciate da altri pensatori, come Max Weber, o dal compromesso col nazismo di Carl Schmitt.

Come Schmitt, tuttavia, quegli intellettuali riconoscono il problema politico tedesco come una impotenza dello stato (Staatsohnmacht), un cattivo pluralismo che impedisce un efficace governo. Nelle parole di Rüstow: «Lo stato viene dilaniato da ristretti gruppi d’interesse». La comune critica del parlamentarismo porta anche alle ambiguità di alcuni intellettuali dell’ordoliberalismo verso l’avvento del nazismo. Ma, da ultimo, vi sono profonde differenze.

La politica economica ordoliberale dà grande importanza al ruolo dei poteri pubblici nella regolazione del mercato per la sua efficienza, attraverso le regole contro i monopoli, una certa progressività nella politica fiscale, la politica sociale per garantire un equilibrio tra capitale e lavoro. Nell’ordoliberalismo è centrale il rapporto tra la liberazione delle energie private e il loro controllo. Alla centralità delle regole si accompagna comunque una certa diffidenza verso gli apparati burocratici: gli ordoliberali non credono alla razionalità tecnica weberiana.  

Questo cammino intellettuale, che Mesini affronta raccontandone il prologo (le radici di lungo periodo nella storia tedesca) e l’influenza nel Novecento, insiste su alcuni grandi temi. Ne citiamo in particolare tre. Uno tocca senz’altro il rapporto tra le diverse incarnazioni dello stato tedesco, lo sviluppo economico e la ricerca continua di stabilità, anzitutto monetaria. Un altro tema riguarda i rapporti con gli Stati Uniti, negli anni Venti, nel distacco degli anni Trenta e nella stretta collaborazione degli anni Quaranta. C’è poi, ovviamente, la questione europea, il ruolo della Germania in Europa.  

Il mito positivo

La Repubblica federale tedesca abbraccia l’ordoliberalismo e traduce i suoi obiettivi nell’economia sociale di mercato. Come spiega Mesini, cruciale è la capacità degli intellettuali e dei decisori di costruire un mito positivo, in cui la crescita «è attribuita alle virtù del popolo tedesco: lo spirito imprenditoriale, la propensione al risparmio, la moderazione nei consumi e la competitività internazionale dei suoi prodotti». La vicenda tedesca va inquadrata in un più ampio contesto del sistema politico ed economico internazionale, che consente di mettere questi fattori in prospettiva. In ogni caso, conta il risultato: con l’economia sociale di mercato la Germania esorcizza i suoi fantasmi e gli obiettivi tedeschi si canalizzano sulla crescita economica e sulla competitività sui mercati, con il coordinamento del settore privato e un forte rapporto tra territori e governo centrale.

I problemi di questo secolo, i nodi che ora vengono al pettine, paiono più complessi. Mesini ricorda un’affermazione di Ralf Dahrendorf, nel dialogo svolto in Italia all’inizio degli anni Novanta con Furet e Geremek, moderato da Lucio Caracciolo. Dahrendorf afferma: «Forse il nuovo imperialismo tedesco consiste proprio nel sostenere che tutti i nostri interessi nazionali sono europei e che quindi coloro che non sono d’accordo con noi sono cattivi europei». Parlare di imperialismo sembra esagerato. Ma è stato ambiguo far coincidere l’interesse nazionale tedesco e quello europeo, mentre la Germania di Angela Merkel ha perseguito alcuni rapporti economici – con Cina, Russia e Turchia, tra gli altri – con indubbie conseguenze politiche. Quelle conseguenze sono state sottovalutate dalla Germania, per poi presentare un conto molto pesante.

Questo è il dramma odierno del giudizio storico sulla leadership di Angela Merkel, come ricorda Antonio Funiciello nel suo libro Leader per forza. I successi dell’ordoliberismo e dell’economia sociale di mercato appaiono così, secondo una nuova luce, come modi per prendere tempo rispetto a grandi e spesso scomode scelte politiche: sull’identità tedesca, sul ruolo della Germania, in Europa e in un mondo disordinato.

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