La strategia dell’Unione europea sullo stop al petrolio russo altro non è che una tattica del meno peggio. «Non si poteva dare il segnale di un fallimento politico totale», dice una fonte diplomatica salutando il faticoso accordo. È appena passata l’ora di pranzo e i capi di stato e di governo stanno confluendo a Bruxelles per il Consiglio europeo, che continua anche martedì, e che apre i lavori sul tema del momento: la guerra in Ucraina. Da quando Ursula von der Leyen ha annunciato l’embargo dal petrolio russo, il 4 maggio scorso, sono passate settimane, e discussioni infinite.

Perciò lunedì mattina il Coreper, l’organismo che riunisce i rappresentanti dei governi in Ue, ha tentato fino all’ultimo di trovare un accordo politico sullo stop al petrolio, da lasciare in dote ai leader. Non si poteva fallire su tutta la linea, come commenta chi ha seguito i lavori del documento. Ma a furia di cercare un compromesso, l’Unione finisce per depotenziare il suo messaggio dissuasivo a Vladimir Putin. L’accordo altro non è che una soluzione zoppa. E come se non bastasse, quando il Consiglio inizia, l’eco dei ricatti di Viktor Orbán non si è ancora spento. Intanto l’altro gran ricattatore, il presidente russo, muove le sue pedine: anche l’Olanda si prepara al taglio delle forniture di gas; si rifiuta di pagare in rubli.

Soluzione a metà

Il compromesso disegnato dai rappresentanti dei governi diluisce tempistiche e ampiezza dell’embargo. Secondo questo scenario lo stop diventerà effettivo dal primo gennaio 2023. Ma comincia sùbito solo per il petrolio che arriva tramite petroliere. Un terzo delle forniture russe all’Ue resta quindi invariato. La data fatidica non varrà infatti per gli oleodotti.

L’importazione di petrolio russo via oleodotto è garantita da una eccezione, e il Consiglio si impegna a tornare su questa eccezione in futuro. L’esenzione è temporanea, rassicura chi ha seguito i lavori della bozza. Al momento di ridiscutere la questione, si ripresenteranno ad ogni modo le fatiche negoziali viste finora. Orbán, il grimaldello di Putin nell’Ue, è stato additato come il principale ostacolo al raggiungimento di un accordo più ampio.

Tra gli argomenti usati dal primo ministro ungherese per contestare lo stop totale, c’è la mancanza, per il suo paese, di accessi via mare per l’importazione di energia: «Ci hanno tolto il mare», è l’uscita nazionalista usata dal premier, che evoca la «Grande Ungheria» pre-Trianon, suscitando le reazioni irritate della Croazia. Con il compromesso, il petrolio russo continua a fluire intonso, dalle raffinerie ungheresi e slovacche, in mano alla multinazionale Mol. Il 60 per cento del petrolio, in Ungheria, è russo.

Ma l’esenzione per gli oleodotti in sé finisce per beneficiare tutti gli altri paesi attraversati da queste infrastrutture: Druzhba Nord porta il petrolio verso Berlino, e anche altri paesi come Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, beneficiano di questa esenzione. Non a caso i “falchi” anti Putin, come la Polonia, lasciano intendere che potrebbero prendere iniziative autonome per accelerare sull’embargo. Il timore che gli stati avvantaggiati dall’esenzione potessero praticare concorrenza sleale e rivendere il petrolio agli altri paesi Ue verrebbe fugata, secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche, inserendo il divieto di rivendita nel mercato interno europeo.

Il ricatto di Orbán

«I piani di Bruxelles aumenterebbero i prezzi della benzina! Non permetteremo che accada!». Sulla passerella per entrare al Consiglio, il premier ungherese lancia un messaggio rivolto agli ungheresi. L’Ue è il bersaglio preferito. Ma come mai, nonostante la soluzione al ribasso trovata dagli ambasciatori, Orbán continua a paventare di bloccare tutto? L’ultimo escamotage dialettico è la richiesta di «garanzie» nel caso in cui l’Ucraina blocchi il flusso di petrolio che scorre dalla Russia verso l’oleodotto ungherese.

Considerato l’uso che Orbán ha fatto finora del suo potere di veto, e cioè un uso tattico collaudato per spremere dall’Ue condizioni a suo vantaggio, è plausibile che le «garanzie» siano anzitutto i soldi europei. «Ancor più oggi che Bruxelles prova a fare i distinguo tra Varsavia, con la quale dialoga, e Budapest, il premier ungherese è sempre più isolato e anche per questo si comporta come chi non ha nulla da perdere. Visto che in nome dello stato di diritto l’Ue tiene bloccato il Recovery per l’Ungheria, il premier prova a ottenere soldi, o sbloccando il Recovery o sotto forma di sostegno sul fronte energetico», come nota lo studioso ungherese Daniel Hegedus. «Se gli va bene, ottiene denaro o vantaggi di altro tipo; se gli va male, ha un capro espiatorio al quale additare i propri fallimenti davanti agli elettori».

Il ruolo del cattivo

Ma questo è solo «il miglior scenario», secondo Szabolcs Panyi, il giornalista che il governo ungherese ha spiato con Pegasus e che proprio studiando le connessioni – e i mutui favori – tra Orbán e la Germania ha vinto lo European Press Prize. «Un’altra interpretazione è che non sia solo l’Ungheria a frenare sull’embargo, ma anche altri governi come la Germania e persino l’Italia, perché per questi paesi sarebbe un danno reputazionale troppo alto opporsi apertamente». Poi c’è il terzo scenario, ed è «il peggiore»: «Orbán fa il lavoro sporco per Putin».

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