«Sta diventando quasi un’abitudine constatare l’immiserimento della nostra politica. Dimenticando che lo scadimento dipende non poco dalla rinuncia quasi unanime degli intellettuali, dopo la fine delle battaglie ideologiche del secolo scorso, a esercitare una funzione pubblica di stimolo, di conoscenza, di critica e di suggerimento, e dal loro ritrarsi – pur se spesso non senza qualche ragione – dalla frequentazione della vita pubblica, o di quel che ne resta. Priva di questo essenziale retroterra, qualunque politica – tanto piú se progressista – non può che scadere. Dobbiamo perciò reagire con ogni mezzo a questa assenza, prima che sia troppo tardi».

Sono parole di Aldo Schiavone, uno degli storici italiani più tradotti del mondo – ha insegnato alla Scuola Normale di Pisa, è stato preside della facoltà di giurisprudenza all’università di Firenze, fondatore e direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane – e appassionato intellettuale di sinistra (è stato direttore dell’Istituto Gramsci). Schiavone ha scritto un piccolo ma prezioso libro (Sinistra! Un Manifesto, Einaudi) la cui brevità è segno di precisione analitica. La tesi dell’autore è che nell’epoca del nuovo capitalismo tecno-finanziario globalizzato che abbatte confini e ridisegna l’intera morfologia sociale, che non accetta più la supremazia della politica e della democrazia, una sinistra che rimanga ancorata alla vecchia interpretazione del mondo comune tanto alle socialdemocrazie quanto al comunismo, fondata sulla centralità del lavoro, è destinata a soccombere.

In un periodo in cui il dibattito pubblico è diventato un perenne talk che insegue battute e cinguettii è forse utile ascoltare un pensatore audace che osa domande che vanno al cuore e alla sostanza della politica.

Dice Schiavone: «Quando dico che vanno abbandonati i punti di riferimento classici mi riferisco a qualcosa di duraturo e profondo che ha segnato tutta la sinistra novecentesca, tanto quella socialista, quanto quella comunista. Il riferimento al lavoro e alla classe operaia era fondamentale. Ma sono proprio queste categorie che sono saltate, almeno a datare dagli anni Ottanta del secolo scorso. Il lavoro non produce più automaticamente aggregazione di classe e ciò fa venir meno le basi sociali delle sinistre tradizionali in tutto l’occidente. E al tempo stesso colloca a destra il voto operaio, come nell’Italia del nord e in tanti altri paesi occidentali. Se gli operai, non più “classe operaia”, votano a destra in tutto l’occidente,  salvo per il momento la Germania, viene meno quello che era stato il valore fondante delle sinistre».

L’antagonismo cooperativo tra capitale e lavoro nello schema novecentesco offriva al conflitto di classe in occidente, come alternativa alla rivoluzione, il compromesso socialdemocratico dal quale nasce il welfare e le principali conquiste sociali dell’Europa. Mentre oggi il nuovo capitalismo globale e tecno-finanziario afferma il proprio predominio saltando la mediazione politica, senza l’identità di classe che cosa può tornare a rendere il lavoro una potenza politica e la sinistra la forza del cambiamento?

Nella globalizzazione, oggi, esistono enormi asimmetrie nella gestione del potere ma anche enormi potenzialità che la potenza della tecnica offre al genere umano. Questa potenzialità può diventare strumento di eguaglianza solo se la sinistra mette al centro del suo pensiero l’universale umano. In tutto il mondo la destra gerarchizza l’umano: prima i bianchi, prima i maschi, prima gli italiani o gli americani. La sinistra nuova deve puntare su un’idea di eguaglianza che metta al centro l’universalità dell’umano e quindi deve lottare affinché la globalizzazione, che è inevitabilmente il nostro destino, sia guidata da un’etica.

Il paradosso è che la fine della centralità operaia non ha affatto diminuito lo sfruttamento. Guardando alle condizioni di molti lavoratori oggi mi vengono in mente le pagine in cui Frederich Engels, nella sua inchiesta sulle condizioni della classe operaia in Inghilterra si rivolgeva agli operai: «…ho trovato che siete più che puri inglesi, più che membri di una singola nazione isolata: siete uomini, membri della grande famiglia dell’umanità, consci che gli interessi vostri e di tutto il genere umano coincidono. E come membri della famiglia dell’umanità “una e indivisibile”, come esseri umani nel senso più pieno della parola, io e molti altri sul continente, salutiamo il vostro progresso in ogni direzione e vi auguriamo un rapido successo. Avanti allora come avete fatto finora. Molto resta da affrontare; siate decisi, siate intrepidi, il vostro successo è certo, e nessun passo della vostra marcia in avanti sarà perso per la nostra causa comune, la causa dell’umanità!».

Esatto. Questa idea dell’universalità dell’umano era anche dentro la vecchia sinistra. È questo cui alludeva lo stesso Marx quando scriveva che «liberando sé stessa la classe operaia libera tutta l’umanità». Oggi la strada deve essere diversa, nel senso che la classe operaia non è più classe generale, ma per arrivare allo stesso obiettivo. Credo che il richiamo al socialismo impedisca di rendersi conto della portata dei cambiamenti che sono avvenuti in tutto il mondo dagli anni Ottanta del XX secolo attraverso la rivoluzione tecnologica. E nei prossimi decenni avremo cambiamenti ancora più radicali che cambieranno il volto dell’umano sul pianeta».

Nel libro lei parla «di autentiche macchine del diseguale. Alla loro forza, alla loro capacità di sminuire e impoverire le nostre vite, dobbiamo saper opporre qualcosa di altrettanto forte e potente, innanzitutto dal punto di vista intellettuale: il disegno di un nuovo progetto che sia in grado di costituire il nucleo di un Patto di eguaglianza da proporre al paese per la salvezza della sua democrazia. Un Patto che sia già un programma politico, stretto non in nome di una classe – che porti cioè dentro di sé il segno dell’esclusione – ma del «comune umano» come soggetto e come valore includente e globale». Quindi, se la sinistra deve abbandonare l’involucro socialista ma non la lotta per l’eguaglianza in futuro c’è più, non meno bisogno di sinistra, anche se di una sinistra completamente nuova?

Sì. E c’è anche bisogno di maggior radicalismo a sinistra, ma su nuove basi. Invece quello che si è fatto, non solo in Italia, è stato annacquare le vecchie identità senza proporne di nuove. La sinistra ha bisogno prima di idee e poi di cuore. Io in questo piccolo libro abbozzo solo alcune idee, ma c’è bisogno di analisi, riflessioni, studi. Anche di pratica politica, certo, perché solo con i libri non si cambia il mondo.

Nella sua visione non c’è competizione tra diritti sociali e diritti civili, dunque?

Non può esserci competizione perché oggi i lavori che incorporano molto sapere e molta tecnologia si proteggono anche da soli. Sono i lavori che invece incorporano poca tecnologia e poca conoscenza che non possono farlo e che vanno dunque difesi attraverso i diritti. Questi lavoratori non diventano una classe e, se abbandonati a sé stessi, sono in balia dei padroni e del capitale fino a giungere a vere e proprie forme di nuovo schiavismo. E su questo dobbiamo intervenire molto ma non avendo in mente la vecchia idea unitaria di classe operaia, perché non c’è più il lavoro, ci sono i lavori e sui lavori che stanno più in basso c’è un enorme carico di sopraffazione e sfruttamento. La differenza drammatica è che il lavoro operaio classico sapeva come proteggersi perché era una classe che esprimeva una potenza politica. Oggi questo insieme di lavori non diventerà mai una potenza politica.

In cosa è diversa questa sua idea di sinistra dal tradizionale approccio liberal-democratico?

Intanto, un’idea molto forte dell’eguaglianza in nome dell’universale umano che la sinistra liberale non hai mai sposato fino in fondo. E poi per una critica radicale del nuovo capitalismo tecno-finanziario. Esso crea infatti sia in Italia che nel mondo enormi occasioni di liberazione ma provoca anche una distribuzione drammaticamente asimmetrica del potere. Bisogna spostare l’idea di eguaglianza dal piano dell’economia dove l’aveva messo lo sviluppo capitalistico di una volta – per non dire del pensiero di Marx – a quello dell’etica e delle coscienze. Un cambiamento non semplice, ma decisivo: prima impossibile, ma che adesso ci possiamo finalmente permettere, proprio perché le basi tecnologiche della società che sta nascendo ce lo consentono.

Occorre dunque tornare a una critica del capitalismo ma senza avere il socialismo come meta finale. Come si esprime questa critica?

Sul piano sociale, ma anzitutto su quello politico, con un nuovo soggetto politico di sinistra in grado di pensare il mondo nuovo. In tutto l’occidente abbiamo assistito in questi decenni a una regressione della politica che ha portato a una crisi della democrazia e a un distacco crescente dalla politica di masse di cittadini, soprattutto di giovani: la politica conta sempre di meno e dà l’impressione di contare sempre meno perché chi decide sulle nostre sorti non sta più nelle aule parlamentari. Il capitale ormai si organizza solo a livello globale, mentre la politica rimane confinata nei singoli stati.  Dobbiamo combattere per un ritorno forte della politica che vada oltre i confini nazionali per superare l’asimmetria tra un capitale che pensa in termini di mondo e una politica che arretra entro i confini nazionali. Nel nuovo mondo Sinistra, Europa e Politica sono tre termini che devono tornare a coincidere.  

LAPRESSE

Forse il nuovo Pd assomiglia un po’ a quel cui lei pensa? Soprattutto dopo l’avvento di una leader donna e giovane come Elly Schlein.

Me lo auguro, ma  devo dire la verità, non lo so. Per ora sto a guardare con interesse. Lei è la prima leader post noventesca della sinistra, parte da zero, ha poco alle spalle, deve però ancora mostrare, insieme al gruppo dirigente che le sta intorno, uno spessore intellettuale che per ora non vedo. Vedo molto agitarsi, anche positivo, dopo la stagione – mamma mia! – di Enrico Letta, ma  non basta. Va bene alzare i toni, ma servirebbe anche una robustezza di pensiero che ancora non vedo. Per non parlare poi del M5s che è tabula rasa ma che potrebbe essere ben colmata da un Pd che avesse un nuovo pensiero politico. Elly Schlein ha una grande carta da giocare e, con tutti i limiti che conosciamo bene ce l’ha anche il M5s. La carta è mettere in campo una strategia comune per smontare le nuove strutture di diseguaglianza, costruire una globalizzazione virtuosa, a partire dalle prossime elezioni europee. Tutta la sinistra dovrebbe alzare la bandiera di chi vuole più Europa, a cominciare dal Pd che per me ne resta il fulcro e che può riassorbire anche chi ha votato per il M5s. È una sfida, una competizione, ma non c’è bisogno di farsi la guerra mentre governa la destra».

Forse solo il Pd degli inizi, il Pd del lingotto di Veltroni e della carta dei valori di Reichlin e Scoppola tentò qualcosa di simile al partito che immagina lei, ma sappiamo com’è andata a finire.

«È verissimo, quel tentativo andava nella direzione giusta. Forse è mancata la tempra del leader, degnissima persona. Ma non è andando all’indietro, come sembrano voler fare i nostalgici delle socialdemocrazie, che si interpreta il cambiamento».

Qualche consiglio a Elly Schlein?

«Anzitutto le consiglierei di prendere una iniziativa forte per la pace a livello europeo senza mettere in discussione il necessario sostegno militare all’Ucraina.  Poi, di concepire l’Europa come la costruzione di uno spazio sovranazionale della politica. Infine, di ingaggiare una grande battaglia contro le diseguaglianze. Siamo di fronte allo stato nascente di una nuova civiltà: la prima civiltà globale della storia; l’epoca dell’unificazione planetaria dei destini della specie. Sono convinto che solo una sinistra forte, a cominciare da quella italiana – capace di uno scatto d’orgoglio, che abbia ritrovato sé stessa e sappia aprire grandi orizzonti – sarà in grado, com’è ben possibile, di guidare il cambiamento e cogliere le straordinarie opportunità offerte dal tempo che si apre, evitandone però anche i gravissimi rischi».

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