Secondo la presidente del Consiglio Giorga Meloni, il decreto lavoro approvato dal governo lunedì primo maggio produrrà il taglio delle imposte sul lavoro «più importante degli ultimi decenni». Non è vero, come dimostrano le leggi di bilancio e le altre norme approvate dai governi Draghi e Renzi e come ha certificato il sito di factchecking Pagella Politica.

Ma il decreto contiene anche altro: un nuovo impulso alla flessibilizzazione e alla precarizzazione del lavoro, oltre all’abolizione del reddito di cittadinanza sostituito da un nuovo sussidio di importo minore e più difficile da ottenere e mantenere. Questo almeno è quanto si può stabilire al momento. Come (spesso) avviene, infatti, a 24 ore dalla sua approvazione, il decreto è ancora sottoposto a modifiche da parte dei tecnici di palazzo Chigi e un testo completo non è ancora stato ufficialmente pubblicato.

La carota

Il taglio del cuneo fiscale rappresenta la “carota” del decreto lavoro: uno sconto pari al 4 per cento sui versamenti contributivi di chi guadagna fino a 35mila euro che si tramuta in un aumento in busta paga per il lavoratore. «Va nella direzione delle richieste che abbiamo fatto, è un primo risultato», ha commentato il segretario della Cgil Maurizio Landini, che aveva chiesto un taglio di 5 punti per combattere l’inflazione (che nel 2022 è stata pari a circa il 10 per cento).

Ma il diavolo si nasconde nei dettagli, ossia nella data dalla quale scatterà il taglio e nel suo esatto importo per ciascun lavoratore. Il governo non sembra ancora deciso su questi due punti fondamentali. Nell’ultima bozza di decreto si parlava di un taglio in vigore per cinque mesi, da luglio a novembre, mentre il ministero dell’Economia ha parlato in un comunicato di un periodo tra luglio dicembre.

In ogni caso, sembra che il governo abbia optato per il più classico dei trucchi: ridurre i mesi di erogazione del bonus per poter aumentare i singoli stanziamenti mensili. Le risorse per il taglio, infatti, sono state già stanziate e ammontano a circa 4 miliardi. Se come previsto delle prime bozze, questi soldi fossero stati spalmati da maggio a dicembre, i lavoratori avrebbero visto aumentare le proprie buste paga di una ventina di euro al mese. Riducendo il periodo a cinque mesi, invece, il governo può parlare di un taglio di quasi ciquanta euro al mese che, se si includono gli interventi già effettuati in precedenza e quelli del governo Draghi, arrivano a oltre 90 euro. L’intervento è in ogni caso una tantum: non sono stati previste risorse per finanziarlo nuovamente il prossimo anno.

La bufala

Visto che il decreto non è ancora stato completato, non possiamo dire quanto con esattezza il governo intende spendere per tagliare il cuneo fiscale, ma sappiamo che il denaro già stanziato si aggira intorno ai 3,5 – 4 miliardi di euro. Presa da sola, questa riduzione di pressione fiscale sul lavoro non è affatto la «più importante degli ultimi decenni». Se cose migliorano se sommiamo l’altro taglio del cuneo fiscale deciso dal governo Meloni: 5 miliardi di euro stanziati nella legge di Bilancio 2023 e usati in parte per confermare il taglio del 2 per cento per i redditi tra 25mila e 35mila già deciso dal governo Draghi, e in parte per finanziare un aumento dal 2 al 3 per cento per i redditi sotto i 25 mila euro.

Insomma, se prendiamo queste norme insieme, Meloni ha tagliato le imposte sul lavoro di circa 8-9 miliardi (i 3 o 4 miliardi del decreto lavoro più i 5 della legge di bilancio). Il governo Draghi, invece, ha tagliato 7 miliardi di euro di Irpef, un miliardo l’Irap (pagata da imprese e alcuni lavoratori autonomi) e 2 miliardi di cuneo fiscale contributivo, per un totale di circa 10 miliardi di euro. Il bonus da 80 euro del governo Renzi, di fatto una detrazione flat sull’Irpef, costava circa 9 miliardi di euro l’anno. Entrambi, quindi, hanno ridotto le imposte sul lavoro di importi superiori a quelli del governo Meloni.

Il bastone

Gli altri interventi principali sul mondo del lavoro vanno tutti in direzione di renderlo più flessibile per le imprese, ma precario per i lavoratori. Dopo l’entrata in vigore del decreto, per i datori di lavoro sarà più semplice fornire causali per giustificare contratti a tempo determinato superiori ai 12 mesi. Se prima era necessario indicare ragioni «oggettive», come un aumento di produzione o la sostituzione di un lavoratore, ora si potrà semplice addurre qualsiasi ragione «tecnica» legata alla produzione.

Il decreto alza poi la soglia massima del corrispettivo che può essere pagato al lavoratore per prestazioni di lavoro occasionale in alcuni settori. Chi è impiegato in congressi, fiere, eventi, stabilimenti termali e parchi di divertimento (la lista è provvisoria e potrebbe cambiare), il massimo che si può ricevere come prestazioni di lavoro occasionale, ad esempio tramite pagamenti con voucher o buoni lavoro, da 10mila a 15mila.

Addio Rdc

Infine, il decreto include l’eliminazione del reddito di cittadinanza che il governo intende sostituire con un nuovo “assegno di inclusione”. Stando alle ultime bozze del decreto, il passaggio sarà netto per i più poveri. L’importo massimo passerà dagli oltre 9.300 euro annui del rdc a 7.560. Sarà inoltre più difficile mantenere il sussidio. Chi è considerato occupabile sarà tenuto ad accettare qualsiasi lavoro gli venga offerto se la durata del contratto è superiore a un anno, indipendentemente dalla distanza dalla sua residenza.

Come su tutti gli altri aspetti del decreto, anche sulle modifiche del rdc permangono parecchi dubbi. Ad esempio, nella legge di bilancio era scritto che il sussidio sarebbe terminato ad agosto 2023. Ora dalle bozze sembra che il governo intenda mantenerlo nella sua attuale forma almeno per tutto il 2024.

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