In uno dei momenti più cruenti dell’avvicinamento al commiato finale, Luigi Di Maio aveva rimproverato a Giuseppe Conte che «il Movimento 5 stelle non è una forza politica che sta guardando al 2050, è una forza politica che sta guardando indietro». Una stilettata scelta con cura, visto che il 2050 è l’anno simbolo per il clima in Europa, la scadenza per l’azzeramento delle emissioni di gas serra.

E Conte da tempo fa una gran fatica a trovare un linguaggio che lo renda credibile sull’argomento. Ha capito che è importante, ma non sembra mai davvero aver compreso perché è importante. Dopo la scissione si sarà probabilmente rimesso al lavoro per riuscirci. Ieri, ad esempio, ha rivendicato che il Movimento sarà la prima forza politica a occuparsi di transizione ecologica, digitale, beni comuni.

Nella divisione delle suppellettili e dei libri che segue ogni divorzio, è probabile infatti che sarà lui a ereditare l’anima ecologista del Movimento, la stella che tra le cinque ha il futuro politico più spendibile, mentre Di Maio viaggia verso il centro, uno spazio dove ogni radicalità sarà messa al bando e nel quale, in ogni caso, la voce ambientalista sarà quella di Beppe Sala e del suo «capitalismo verde».

Se le cose andassero così, se Conte davvero usasse questo tema come ha usato quello delle armi, non sarebbe una gran notizia per le ragioni del clima e della transizione in Italia, che hanno poco da guadagnare a diventare la bandiera identitaria del più anti scientifico dei partiti italiani.

Ritrovare un’identità

Dopo aver toccato il fondo del consenso alle amministrative e perso lo status di gruppo più numeroso in parlamento, oggi Conte è il capo di un cumulo di macerie e ha un anno o poco meno per restituire un’identità e quindi un futuro al Movimento 5 stelle.

La scossone si è verificato proprio in un giugno diventato stress test per la capacità dell’Italia di adattarsi alla crisi climatica. Finora Conte aveva scelto la politica estera per segnalare l’esistenza in vita del suo partito, smarcandosi ideologicamente dal governo che sostiene, ma la collocazione geopolitica dell’Italia gli lascia poco margine per seguire quella strada ancora a lungo: dovrebbe mettersi contro Ursula von der Leyen, Joe Biden e pure la buonanima atlantista di Gianroberto Casaleggio.

Fare del M5s il partito del clima invece avrebbe una serie di vantaggi. Il primo è che gli permetterebbe di attingere a un pensiero forte e già strutturato come l’ecologia del clima, proprio mentre il Movimento ha perso ogni certezza storica, compreso il discorso anti casta, che in questa legislatura è diventato una valuta fuori corso.

Potrebbe inoltre lanciarsi su un compito richiesto istituzionalmente dall’Europa, che l’Italia sta svolgendo poco e male. La transizione è diventata in questi sedici mesi di governo Draghi un campo pieno di attriti, perfetto per far ritrovare al Movimento dialettica e purezza, soprattutto in questa finestra di attenzione causata dalla siccità e dal caldo.

E avrebbe un elettorato non presidiato da rivendicare, le cui dimensioni sono imprevedibili, visto che a oggi non ci rendiamo conto di quanto razionamenti, ondate di calore e agricoltura in ginocchio stiano terrorizzando l’Italia. Nel 2023 per la prima volta nel nostro paese, come successo in Germania dopo le alluvioni o in Australia dopo gli incendi, il clima potrebbe essere tra i temi chiave.

Il fianco verde del Pd

Insomma, tutto lascia credere che il destino del Movimento 5 stelle di Conte sia diventare il fianco verde nel campo largo dei progressisti immaginato da Enrico Letta, che invece col Partito democratico ha seguito la strada di ogni suo predecessore, evitando accuratamente di fare del partito una forza ecologista.

Dei tre pilastri (diritti civili, giustizia sociale, sostenibilità) è il meno citato e quello con meno classe dirigente dedicata. Si ricordano un paio di tweet del segretario sul pacchetto Fit for 55 o sulla tassonomia verde europea, quella che aveva inserito anche il gas tra le fonti energetiche sostenibili, ma se il governo Draghi è diventato un ostacolo alla transizione energetica e la più fossile delle democrazie europee, lo ha fatto anche assecondato dal Pd (oltre che dallo stesso M5s).

La metamorfosi ecologista del Movimento 5 stelle sarebbe un bivio molto più per Letta che per Conte: si può lasciare che il tema più importante del futuro diventi la bandiera di un partito che non ha risolto nessuno dei problemi con la scienza? Come suonerebbero concetti tipo “giustizia climatica” in bocca a chi ha governato con Salvini e con i decreti sicurezza?

La transizione sarà dolorosa, richiederà leadership e scelte politiche, che sposteranno risorse, consenso e malcontento, quindi avrà bisogno di portavoce credibili, anche perché oggi in Italia il discorso sull’energia e quello sul clima sono tornati a essere citati separatamente: si parla di nuove estrazioni di gas e di siccità senza mai ricordare il collegamento diretto tra le due cose.

L’Italia ha un bisogno disperato di un leader e di un partito ecologisti di massa per risolvere le contraddizioni del suo rapporto col clima e l'ambiente, ma Letta ci pensi bene prima di lasciare questo compito a Conte e al Movimento 5 stelle.

© Riproduzione riservata