La sua storia non è unica. Perché sono diverse le ambasciate italiane in Asia, Africa e medio oriente, che non concedono i visti a chi ne avrebbe il diritto per venire in Italia in maniera regolare. Ma la storia di Karima (nome di fantasia per tutelarne l’incolumità) una giovane avvocata penalista di origine afghana che fa parte di una associazione di giuristi indipendenti e che da diversi anni si batte per il rispetto dei diritti umani nel paese dove è nata, sembra la più incredibile.  

Sposata con un diplomatico che lavorava nell’ambasciata di un paese estero, la donna vive nascosta insieme al marito, a Kabul, dal 15 agosto del 2021, il giorno in cui le forze militari occidentali hanno lasciato l’Afghanistan, consegnando il paese alle forze talebane. In quei giorni d’estate in cui l’opinione pubblica mondiale e i governi si mobilitarono per evacuare i cittadini e, soprattutto le donne afghane attiviste, la sorella di Karima fuggì in Italia grazie all’aiuto di un professore universitario. E, da allora, la donna vive qui, dove le è stato riconosciuto lo status di rifugiata. Ma facciamo un passo indietro.

È il 26 agosto del 2021. Karima e il marito sono pronti per raggiungere Roma dall’aeroporto di Kabul, dove sono già stati presi in consegna dalle autorità italiane in loco per il piano di evacuazione. Un’esplosione, però, ne rende impossibile la partenza, che verrà rimandata soltanto di qualche mese. A marzo dell’anno successivo, infatti, entrambi i coniugi inviano un’istanza di richiesta di visto umanitario sia all’ambasciata italiana a Kabul, che a quella di Islamabad, in Pakistan.

Passano i giorni e le settimane, intanto, e i due non ricevono nessuna risposta. Fino a quando la stessa ambasciata italiana di Kabul, che nel frattempo è stata trasferita a Doha, in Qatar, invia una pec a Karima chiedendo il numero del cellulare della sorella che vive in Italia. La speranza così si riaccende, ma la donna non riceverà mai nessuna chiamata dall’ambasciata.

Battaglia legale

Mothers along with babies who suffer from malnutrition wait to receive help and check-up at a clinic that run by the WFP, in Kabul, Afghanistan, Thursday, Jan. 26, 2023. A spokesman for the U.N. food agency says malnutrition rates in Afghanistan are at record highs. Aid agencies have been providing food, education, healthcare and other critical support to people, but distribution has been severely impacted by a Taliban edict banning women from working at national and international nongovernmental groups. (AP Photo/Ebrahim Noroozi)

Così a Karima non rimane che rivolgersi a un’avvocata italiana, Loredana Leo, che segue la vicenda per un progetto della Cild, la Coalizione italiana libertà e diritti civili. Leo intraprende una lunga battaglia legale arrivando a citare in giudizio il ministero degli affari esteri italiano per poter vedere riconosciuto il diritto della sua collega afghana.

Karima, nel frattempo, è in pericolo, vive ancora nascosta con i figli e il marito ed entrambi hanno dovuto abbandonare la professione che svolgevano nel “paese delle aquile”.

Nonostante le evidenze, per ben due volte il tribunale ordinario di Roma ha rigettato il ricorso presentato. La prima nel luglio del 2022, motivando il rigetto della richiesta con il fatto che «non sembra sussistere una relazione tra lo stato italiano e i ricorrenti, e che tale relazione non si può far discendere dalla mail dell’ambasciata italiana a Kabul in cui si chiedeva il numero di telefono della sorella, né dalla mera presenza in Italia di un familiare», si legge nella sentenza, in cui veniva contestata alla legale di Karima anche l’assenza dello ius postulandi, cioè del titolo ad agire, per il fatto che la procura a rappresentare la donna non fosse stata autenticata dal notaio di uno stato estero, nello specifico, da Afghanistan, Pakistan o Qatar. Senza considerare il fatto, cioè, che la donna vive ancora nascosta in Afghanistan e che, dunque, da un notaio non si può recare.

Nel successivo reclamo presentato qualche settimana dopo sempre dall’avvocata Loredana Leo, Karima e suo marito hanno chiesto nuovamente alle due ambasciate la richiesta di un visto umanitario per l’Italia, lamentando una condizione di estremo pericolo ed appellandosi all’articolo 10 della Costituzione che disciplina le richieste di asilo costituzionale. Non solo. Hanno chiesto anche al tribunale di Roma che, nel caso in cui la procura al legale non fosse considerata idonea, di ordinare all’ambasciata italiana di Teheran, in Iran, di riceverli, per perfezionare la procura.

Ma questa soluzione prospettata per poter venire in Italia, regolarmente, per chiedere protezione, è stata nuovamente bocciata dalla sentenza di un giudice.

Mentre la battaglia legale continua e Karima e la sua legale non si arrendono, intanto, sono diverse le storie di cittadini afghani che avrebbero pieno titolo a venire regolarmente in Italia, ma non vi riescono per gli ostacoli burocratici frapposti dalle ambasciate italiane all’estero, e da alcuni tribunali italiani in patria.

«Nel corso di questo primo anno di progetto abbiamo ricevuto numerose richieste di aiuto da parte di cittadini e cittadine afghane che vorrebbero ottenere un visto per scappare dalle persecuzioni dei talebani e che si scontrano quotidianamente con l’inerzia delle autorità italiane prima e con gli ostacoli per l’accesso ad una tutela giudiziaria effettiva poi». Conferma Loredana Leo: «ancora oggi, quindi, queste persone vivono intrappolate in Afghanistan, aspettando una possibilità di uscire dal paese».

Speranze

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Vi sono casi, però, in cui i giudici riaccendono le speranze di vita delle persone. C’è un cittadino afghano, ad esempio, che tuttora si trova in Iran con un visto turistico scaduto ed è in pericolo di vita a causa della sua omosessualità. In Italia, ad aspettarlo, c’è un uomo che vive in una città della Lombardia con cui diverso tempo fa aveva intrapreso una relazione. Secondo l’ambasciata italiana in Iran non sarebbe potuto arrivare con il ricongiungimento familiare.

L’uomo aveva chiesto alla rappresentanza diplomatica di Teheran l’autorizzazione a costituire una unione civile per procura con il cittadino afghano con cui aveva intrapreso una relazione. Subordinando la richiesta «all’esonero dalla presentazione del certificato di stato libero, o in subordine, onerarlo di sostituirla con una certificazione di stato libero rilasciato dalla rappresentanza diplomatica di Teheran». L’ambasciata, in un primo momento, si era opposta alla richiesta. 

Ma l’uomo italiano non si era dato per vinto e, assistito dall’avvocato Salvatore Fachile, aveva presentato ricorso in tribunale, lamentando l’oggettiva impossibilità a presentare il documento in questione da parte del cittadino afghano, «comportando tale richiesta alle autorità del paese di origine un concreto pericolo per la sua vita», essendo punita nel paese l’omosessualità.                                                     

Alla fine della fiera, il giudice ha dato ragione ai ricorrenti, ordinando all’ambasciata di autorizzare quella che è a tutti gli effetti la prima unione civile di questo tipo, condotta per procura, in un paese straniero dove è vietata per legge l’omosessualità. Il giudice che ha emesso la sentenza l’ha motivata riconoscendo l’esistenza del periculum in mora, derivante dal rischio concreto per il cittadino afghano di essere perseguitato, ma anche riconoscendo ad entrambi di fruire di un diritto fondamentale ed inviolabile della persona. Un particolare, quest’ultimo, che a molti funzionari delle ambasciate italiane in Africa, Asia, medio oriente, forse, sta sfuggendo.

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