D’accordo: ai figli non dovrebbero essere addebitate le colpe dei padri. Ma, a loro volta, i figli non dovrebbero essere nominati parlamentari (perché così funziona) in quanto figli. Salvo poi invocare la meritocrazia, come ha fatto De Luca junior. Né si comprende come si possa farlo assurgere a caso meritevole di mobilitare i cosiddetti riformisti del Pd. Se caso politico è – e, a mio avviso, lo è – va posto a viso aperto e nei suoi esatti termini: riguarda il padre e ha a che fare non con differenze di posizioni politiche, ma con riguardo al modo di fare politica. Meglio: alla concezione e alla pratica del potere. Che è anche più importante.

Il sistema Campania

L’inchiesta giornalistica svolta tempo fa da Domani sul caso De Luca-Campania, commentata da par suo da Isaia Sales, uno studioso di vaglia, nonché uomo che conosce e ama la sua terra campana come pochi altri, è eloquente di suo. Altro non dovrebbe essere necessario aggiungere. Se non una sottolineatura: nel commissariare il Pd campano Elly Schlein è stata di parola. È la prima segretaria del Pd che osa affrontare la questione. Tutti i suoi predecessori hanno fischiettato, compreso chi, come Renzi, annunciò il ricorso al lanciafiamme, ma poi scese a patti con il satrapo di Salerno.

Come anche lo sfidante alle primarie Bonaccini. Va detto: un gesto, quello della neo leader Pd, che vale più di cento discorsi su discontinuità, innovazione, apertura, trasparenza. Soprattutto buona politica. Perché questa è la principale delle questioni in gioco, appunto la concezione e la pratica della politica. Ed è questione genuinamente nazionale che interroga tutti ma ancor più la sinistra.

Sales ha spiegato bene come la nomea di De Luca quale buon amministratore è, a dir poco, dubbia. Ammettiamo che, in origine, lo fosse. Ma, con il tempo, essa si è decisamente dissolta. È rimasta semmai la fama di collettore di voti. Ma la domanda cruciale è la seguente: voti acquisiti come, a che prezzo, con quali effetti sul piano locale e nazionale?

Il metodo De Luca

Per cosa si caratterizzano il metodo e il modello incarnato da De Luca? La non distinzione tra il comandare e l’amministrare, distinzione essenziale in democrazia, tanto più per chi milita a sinistra. La esasperata e persino ostentata personalizzazione del potere, con la degradante riduzione di chi circonda il capo al rango di cortigiano. Una pratica che si nutre di clientelismo e di familismo (persino di sangue), ripeto, avallati, per pavidità e inerzia, dai vertici succedutisi nel Pd. Una rete di relazioni opache al confine della legalità. Un controllo del partito locale affidato a un tesseramento palesemente gonfiato (in alcuni casi si contano più tessere che voti). Il rifiuto di accettare un limite ai mandati che è principio di una sana cultura delle istituzioni, ancorché già violato in taluni casi anche a sinistra. Peraltro in un tempo che, specie dopo la cattiva prova data dalla gestione sanitaria non coordinata delle regioni al tempo del covid, semmai dovrebbe suggerire un ripensamento della stessa elezione diretta dei presidenti di regione, che si sono attribuiti il pomposo (e costituzionalmente abusivo) nome di “governatori”.

Come è noto, una strada, quella di allestire un monumento equestre a sé stessi, aperta dal Celeste Formigoni. Del quale conosciamo l’inglorioso epilogo. La cooptazione di un ceto politico del tutto indifferente alla discriminante destra-sinistra, come usa dire, con il metodo delle reti a strascico. Una prassi comunicativa più congeniale all’avanspettacolo che non alla dignità delle istituzioni, che si nutre di compiaciuta autocelebrazione, di grevi provocazioni, di dileggio degli avversari e persino dei dirigenti del proprio partito.  

A ben vedere, un cumulo di elementi che vanno a comporre un quadro tristemente esemplare, nel quale non manca un solo ingrediente dei vizi della politica e della pubblica amministrazione da oltre un secolo denunciati dai grandi meridionalisti. Ai quali ancora oggi dobbiamo la più lucida e accorata disamina del rapporto malato tra cittadini, politica e istituzioni in quei territori; e segnatamente della responsabilità delle classi dirigenti nel generare e perpetuare la condizione arretratezza e di sottosviluppo del mezzogiorno d’Italia. Dunque, un “caso serio” e una pietra di paragone decisiva per misurare la portata della svolta impressa al Pd dalla sua nuova leadership e per voltare pagina in una regione già afflitta da troppi problemi per potersi permettere un modo tanto imbarazzante di gestire la cosa pubblica.

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