La procura di Roma che sta indagando sull’ex socio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e su una presunta associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze illecite, sta analizzando nuove piste investigative. Che stavolta mirano a capire i motivi di alcune decisioni prese dalla struttura commissariale per l’emergenza Covid, che al tempo dei reati contestati a Di Donna e altri avvocati accusati di aver mediata tra l’ente e aziende private era guidata da Domenico Arcuri.

Innesco dell’inchiesta giudiziaria, è fatto noto, sono state le dichiarazioni del testimone Giovanni Buini. Un imprenditore del settore medico sanitario che ha spiegato a Piazzale Clodio («si è presentato spontaneamente», dicono i magistrati nel decreto di perquisizione; «in realtà sono stato convocato, io non ho fatto nessuna denuncia» ha spiegato lui) di essere venuto in contatto con Di Donna e l’avvocato Gianluca Esposito per intermediare la vendita di ingenti quantità di mascherine alla struttura commissariale. Buini aveva già piazzato agli uomini di Arcuri qualche settimana prima alcuni carichi di dispositivi individuali: «Un milione di mascherine chirurgiche del tipo IIR, le più performanti», spiega a Domani. Stava trattando a voce per una commessa molto più imponente, da ben 160 milioni di pezzi. È per gestire questa partita che Buini decide di coinvolgere la coppia di legali.

I due avrebbero subito evidenziato all’imprenditore «la vicinanza del Di Donna con ambienti istituzionali», cioè con i “trafficati” Conte e Arcuri, e poi gli avrebbero poi chiesto compensi per la mediazione professionale. Durante un primo incontro del 30 aprile 2020 Buini avrebbe accettato l’affare, salvo fare marcia indietro dopo un secondo rendez-vous avvenuto il 5 maggio allo studio Alpa – oltre Di Donna era presente anche il capo di gabinetto dell’Aise Enrico Tedeschi – rescindendo l’accordo con Esposito e l’amico di Conte. Buini manda a Di Donna una pec, una giravolta – spiega ai pm – dovuta alle «modalità opache» della proposta di mediazione che lui stesso aveva inizialmente sottoscritto.

La commessa revocata

Buini però va oltre. E racconta agli inquirenti romani, consegnando anche alcune email come prova, che dopo qualche giorno dall’incontro con Di Donna la struttura commissariale non solo decide di fermare la mega commessa, ma gli chiede pure di andarsi a riprendere mezzo milione di mascherine della prima fornitura che lui aveva già consegnato agli uffici di Arcuri. È Antonio Fabbrocini, braccio destro dell’ex commissario, a scrivere l’11 maggio una mail in cui segnalava la decisione di restituire le mascherine di Buini «per sopravvenute mutate esigenze della struttura commissariale». Nel messaggio non ci sono altre spiegazioni, né si contesta la qualità del prodotto.

La procura non ipotizza per ora ritorsioni, ma vuole capire come mai, in un momento in cui il paese era investito dalla prima devastante ondata di Covid e le mascherine erano merce preziosa, i fedelissimi di Arcuri hanno deciso di rinunciare a un carico che era già stato recapitato, senza nemmeno spiegarne i motivi. In questi mesi i magistrati non hanno voluto interrogare alcun funzionario della struttura commissariale né chiedere documentazione in via ufficiale in modo da tenere coperta l’indagine più a lungo possibile, ma ora gli accertamenti sul caso verranno probabilmente velocizzati.

Anche perché al principio i magistrati avevano ipotizzato, proprio per via della bizzarra rifusione, il reato di corruzione e abuso d’ufficio da parte di funzionari ignoti del commissariato, delitto poi modificatosi in traffico d’influenze illecite contro i presunti mediatori. Scelta dovuta non solo gli sviluppi investigativi, ma anche perché le leggi speciali consentono alla struttura anti Covid ampissimi margini di determinazione su ogni scelta. Che rischia dunque di diventare criticabile, ma penalmente insindacabile.

Gestione discutibile

La vicenda che coinvolge Di Donna e compagni, come quelle parallele che hanno investito un altro conoscente di Arcuri, il giornalista Mario Benotti, e il fedelissimo di Massimo D’Alema Roberto De Santis (anche lui indagato per traffico di influenze) sono tutte spie di una gestione quantomeno discutibile degli appalti della dell’epoca pre-Figliuolo.

Arcuri non è ad oggi iscritto nel registro degli indagati, ma lo scandalo rischia di coinvolgerlo da un punto di vista etico e politico: gli appalti gestiti dalla sua struttura hanno infatti permesso a persone che lui conosceva bene di fare affari d’oro. E hanno come protagonisti soggetti come De Santis e Di Donna che sono legati a politici di primo piano (Conte in primis) che hanno permesso allo stesso Arcuri di diventare uno degli uomini più influenti del paese. Se il do tu des non è mai stato provato, il conflitto di interessi è evidente.

Perché la pandemia non è stata affatto una livella, ma ha impoverito molti e arricchito altri fortunati. Molti di questi, è l’ipotesi della procura di Roma, non hanno però incassato parcelle a cinque zeri grazie al loro talento imprenditoriale o alla capacità di mettere prodotti competitivi sul libero mercato, ma esclusivamente per le loro capacità relazionali e le amicizie nelle strutture che gestiscono appalti. Le inchieste cercheranno di capire se si tratta davvero di raccomandazioni illecite, oppure se i business sono – come sostengono gli indagati – tutti legali e trasparenti.

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