Nell’Italia che ha confermato la sua fiducia a Giorgia Meloni, sono più i cittadini che non votano di quelli che votano. Il magro risultato alle urne delle europee ha certificato un dato ormai sempre più solido: con il 49,6 per cento di votanti, andare alle urne ha smesso di essere il modo per comunicare con la propria classe dirigente. O meglio lo è, ma in negativo: le forze politiche sono infatti chiamate a capire per quale ragione gli italiani preferiscano rimanere a casa, invece che votare il partito d’opposizione in caso di malcontento nei confronti del governo.

Ad abbassare la media è stato il Meridione, con il 43,7 per cento di votanti nel collegio Sud e appena il 37,7 per cento di quello insulare. Eppure in proporzione è stato il Centro-Nord a rimanere sordo alla chiamata al voto. In cinque anni, l’Italia nord-occidentale è passata dal 63,5 al 55 per cento di elettori, quella nord-orientale ha perso il 10 per cento dei votanti, calando dal 63,9 al 53,9 per cento rispetto alle scorse europee.

A ben guardare, dunque, i veri disillusi dalla partecipazione sono gli artigiani e i piccoli imprenditori settentrionali, quel Nord che le statistiche raccontano come ricco, industrializzato e prevalentemente orientato al centrodestra e soprattutto al partito della premier, che in Veneto ha toccato la percentuale bulgara del 37 per cento e ha scoperto nella friulana Pordenone una delle province più nere d’Italia.

La disillusione del Nord

Eppure questo Nord che ha premiato Meloni è stato anche quello che, a ben vedere, ha maggiormente disertato le urne. Da questo dato si possono trarre due ordini di considerazioni, spiega il direttore scientifico di Ipsos, Enzo Risso. Una è che il Nord, pur avendola votata in modo maggioritario, con l’astensionismo ha dimostrato di «guardare con distacco al governo Meloni: le aspettative di cambiamento erano più alte di quelle che poi si sono concretizzate in questo anno e mezzo di governo».

La seconda spiegazione del dato è che «in generale al settentrione c’è un maggior radicamento di alcuni partiti a basso tasso di europeismo, che si traduce in un maggior distacco nei confronti del voto europeo». A certificarlo basta un dato: secondo le rilevazioni di Ipsos, il 46 per cento degli elettori del Nord-Ovest pensa che si debba essere meno europeisti, con una percentuale superiore di sette punti rispetto al Sud. Nel nord produttivo, infatti, «c’è una polarizzazione maggiore tra molto europeisti e molto antieuropeisti», è la riflessione di Risso. L’astensionismo, quindi, si può tradurre in due sentimenti: la delusione rispetto alle politiche economiche del governo e l’accrescersi del tasso di ostilità nei confronti dell’istituzione europea.

Eppure le ragioni di una tale disaffezione al voto del nord produttivo non si esauriscono nel mero dato politico. Un calo di quasi il dieci per cento di votanti rispetto alle passate europee ha radici profonde, cresciute silenziosamente nel contesto socio-economico della provincia, soprattutto veneta e lombarda. Il governo Meloni ha raccontato di una crescita del mercato del lavoro e del Pil, ma questa narrazione è lontana dalla percezione proprio di quella parte d’Italia che più del Meridione dovrebbe averne beneficiato.

In un sondaggio sulla situazione economica delle famiglie, in cui si chiedeva se la previsione fosse quella di un miglioramento o di un peggioramento, «i numeri del Nord-Est e del Nord-Ovest di quelli che hanno risposto di prevedere un miglioramento sono sotto la media nazionale», ha detto Risso. Se la media italiana di chi guarda positivamente al proprio futuro economico è del 23 per cento, la media sul Nord è intorno al 20 per cento. La fotografia degli elettori potenziali nelle ricche province settentrionali, infatti, è a tinte fosche. A fronte degli annunci di un mercato del lavoro in ascesa, secondo le rilevazioni di Ipsos il 55 per cento dei cittadini del Nord-Ovest mettono l’occupazione in cima alla lista delle preoccupazioni. Subito dopo c’è quella della sanità, per cui è in ansia il 40 per cento degli interpellati – la stessa percentuale che si registra nel Sud – contro la media nazionale del 37 per cento.

I numeri, dunque, raccontano che la cosiddetta locomotiva d’Italia è alimentata da cittadini che sono proporzionalmente i più preoccupati per il futuro e che non considerano una risposta alle loro paure né l’Europa sempre più matrigna, né le promesse del governo Meloni.

Il non voto

La vera incognita che fa da sfondo a ogni interpretazione dei numeri sull’astensionismo, però, riguarda la fiducia nei confronti dell’Europa: il calo è stato progressivo e verticale con un passaggio dal 77 per cento di fiducia nell’Unione registrato nel 2010 al 47 per cento di oggi.

Il non voto per Risso è il «sintomo di una democrazia europea sempre più malata, perché ha deluso le aspettative su cui l’Ue è nata». L’Europa delle nazioni sulle macerie della Seconda guerra mondiale, infatti, prometteva di creare un mondo più equo, con più benessere e più diritti per tutti, «invece negli anni la forbice della disuguaglianza sociale si è progressivamente allargata».

La traduzione di questo sentimento di disillusione si traduce nel non voto: il 36 per cento degli italiani, infatti, ha risposto che non va a votare «perché stanco o arrabbiato», il 29 per cento perché «ritiene che la politica sia sporca». Molto più in basso, al 20 per cento, c’è un non voto «di protesta».

L’astensione, quindi, oggi è sempre più una scelta che Risso definisce «di stanchezza, di ribellione silenziosa» che è il sintomo della perdita di credibilità delle istituzioni. In questo quadro, l’unica spinta di vitalità è quella del centrosinistra. Secondo i dati, il partito di Meloni ha perso 600mila elettori, mentre Azione, Italia viva e il Movimento 5 stelle hanno complessivamente perso 3,5 milioni di voti.

Gli unici a guadagnarne, in numeri assoluti, sono stati il Pd e Avs, soprattutto al Sud. Segno che, nel prossimo futuro, il vero far west elettorale da conquistare correrà sopra la linea del Po.

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