È l’8 novembre del 2016, e a palazzo Chigi c’è un uomo solo al comando: Matteo Renzi. Il premier che ha scalato il Pd e il governo nazionale in quei giorni sta combattendo la battaglia per il referendum costituzionale. Ma Alberto Bianchi e Marco Carrai, suoi amici e consiglieri fidati, sono preoccupati anche da altro: i presunti affari che starebbe facendo lo studio legale del fratello di Maria Elena Boschi (che siede con loro nel cda della Fondazione Open) e di Francesco Bonifazi, parlamentare e tesoriere del Pd.

«Gaetano Miccichè invita a passare lavoro allo studio Bonifazi-Lovadina-Boschi», dice Bianchi in una chat su WhatsApp con Carrai e depositata nei fascicoli sull’inchiesta Open.

«Chi te lo ha detto??? Mi sembra strano», risponde il sodale. Bianchi spiega: «Francesco Gatti, titolare dello studio Gatti-Pavesi, amico e professionista di Miccichè...Sono tutti più furbi di noi, fidati».

Miccichè è oggi presidente di Imi, del gruppo Intesa San Paolo. Contattato, smentisce categoricamente di aver mai dato un lavoro allo studio dell’ex ministra delle Riforme. Bianchi forse millantava? L’avvocato al telefono dice di «non ricordare la conversazione, sono passati cinque anni».

La chat continua. «Io e te a furbizia siamo sotto zero», aggiunge Carrai. «Io ho messo su un’impresa che dà lavoro a 100 persone e secondo me guadagno meno di loro che dovrebbero fare i parlamentari e i ministri». Bianchi tira in ballo anche Renzi, che a suo parere non frenerebbe gli appetiti dei fedelissimi: «Però anche lui...». Carrai: «Lui fa il suo...». Bianchi: «Si si ciascuno fa il suo, e tanti saluti... Ma ti rendi conto che io e te ci si perita ad accettare incarichi e cariche per non danneggiarlo, e questi vanno in culo alla grande?». Carrai: «Meglio non pensarci altrimenti mi viene il sangue amaro».

Maria Elena Boschi (LaPresse)

La dark room

Le carte dell’inchiesta sulla fondazione Open e sui petali più preziosi del Giglio magico raccontano vizi e peccati del regno di Matteo Renzi. Non solo fatti che secondo i pm di Firenze sconfinerebbero nel penale (il senatore di Rignano e Boschi sono accusati di finanziamento illecito, Luca Lotti e l’ex presidente Alberto Bianchi anche di corruzione), ma anche retroscena che descrivono come si muovevano (spesso nell’ombra) i fedelissimi dell’ex premier.

Colpiscono, soprattutto, le mosse dell’imprenditore che prestò la casa a Renzi e del presidente di Open, che ufficialmente non avevano alcun ruolo pubblico né incarichi di sorta, ma ufficiosamente organizzavano campagne per il partito, dibattono di nomine e favori, elaborano strategie politiche, ipotizzano spin con giornalisti che considerano affidabili.

Il racconto parte da ottobre del 2016.

Carrai tra un messaggio contro Ferruccio de Bortoli che lo aveva tirato in ballo nella sostituzione dei manager di Monte dei Paschi di Siena («questa testa di cazzo... me lo vogliono mettere nel culo perché sono il parafulmine senza scarico a terra») e un ringraziamento a Giuliano Ferrara che ne aveva preso le difese, chiede a Bianchi aiuto per trovare un ufficio riservato. «Mi serve tutto pronto entro venerdì. È per la dark room, mi serve per tre mesi. Non sarà una cosa pubblica. Lo prendi te in affitto come fondazione».

Ferruccio de Bortoli (LaPresse, Carlo Cozzoli)

Nella «dark room» non ufficiale, Carrai vuole mettere 10 persone e cominciare la guerra propagandistica per il referendum. «Per comprare dei computer come faccio? Pago io e poi riprendo i soldi o meglio pagare direttamente come Open per non far girare soldi tra me e fondazione?». Bianchi: «Si meglio».

La “stanza oscura”, messa in piedi da Carrai per aiutare la campagna per il Sì, sembra inizialmente funzionare alla grande. «In una settimana hanno fatto 600 fakes, che non avevano fatto nei sei mesi precedenti nessuno», dice il 18 ottobre Carrai. «Oh, a me sta bene tutto», risponde il presidente di Open. I “fakes” in gergo sono falsi profili creati sui social per attaccare i nemici o viralizzare post propagandistici. «Se ti dico tutte quelle che ho risolto oggi... compreso far oscurare due pagine Facebook false che invocavano la Madonna e Padre Pio per il Sì», continua Carrai.

Il giovane Rasputin è attivissimo. In quei giorni chiede a Bianchi nuove carte prepagate (Bianchi: «Non si può fare con la nostra?», Carrai: «Non volevo ricondurre a me»), manda fatture per la pubblicità su Facebook per convincere gli italiani votare bene (quando Bianchi protesta per l’entità, Carrai risponde: «Vuoi vincere o no?»), poi chiede di «pagare alcune cose tramite bitcoin. Alberto, scaricati la app Coinbase, poi ti chiama Pammolli: parla solo tramite WhatsApp».

Cybersicurezza

Fabio Pammolli è il professore di Economia che diventa nel 2016 regista della macchina della propaganda renziana sulla rete. A cui lavora anche l’ex hacker Andrea Stroppa, da tempo consulente di Carrai e, come ha scoperto chi vi scrive, in passato indagato per aver partecipato a un’associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di accessi abusivi a sistemi informatici che nel 2013 attaccarono siti della polizia, dei carabinieri, del Viminale, e di politici come Beppe Grillo e Massimo D’Alema.

Carrai ha sempre negato di lavorare con o per l’amico: «Sono solo un imprenditore. Renzi fa un mestiere, io un altro. Nessuno dei due confonde l’amicizia con i rispettivi ruoli. Non sono il suo Gianni Letta», diceva in un’intervista al Foglio. A leggere centinaia di messaggi inediti conservati negli atti, la realtà dei fatti sembra diversa.

Non solo. Nel 2016 il lobbista originario di Greve era al tempo già socio della Cys4, una società di cybersicurezza: mentre Carrai organizzava la “dark room” renziana finanziata con i soldi di Open, Renzi tentava da mesi di promuovere Carrai a capo di un ufficio a Palazzo Chigi dedicato alla difesa cibernetica del paese.

Sentito da Domani, Carrai preferisce non rilasciare commenti sull’operazione o sui «fakes» di cui parlava con Bianchi, né intende chiarire a cosa servissero i pagamenti in bitcoin. «Le confermo solo che non avevo rapporti politici con Renzi: ho solo svolto un’attività di cui sono esperto e che, vista la mia amicizia, ho svolto gratis. È come se lei accusasse un’agenzia di comunicazione di fare politica».

Operazione Emiliano

I due consiglieri di Open sembrano muoversi su dossier di ogni tipo e forma. Discutono delle nomine della Fondazione Cr Firenze di cui Carrai è membro del cda («vorrei capire chi sono gli stronzi che non ti hanno votato», chiede Bianchi. «Gliela farò pagare, te lo dico io: Naldini, quello di Grosseto, Poggi e Torricelli. Prossima volta metto cavallo di Caligola in cda», incontrano politici di sinistra e destra (anche il leghista Armando Siri), o imprenditori come Tony Podesta, potente lobbista americano e fratello di John, consigliere di Barack Obama e presidente della campagna elettorale di Hillary Clinton e sponsor del Giglio magico alla Casa Bianca.

Bianchi si lamenta perché «Franco Brescia, unico amico del governo rimasto lì dentro» è stato allontanato da Tim («facciamogli una telefonata»), e poi si interessa dell’Ilva di Taranto. «Matteo vuole annunciare la transazione con i Riva sul contenzioso pendente ma Laghi e la Severino (sua legale) dicono che è prematuro. Provi a dirglielo o ce ne freghiamo?», domanda Bianchi a Carrai.

L’avvocato suggerisce a Luca Lotti persino cosa twittare in modo da ottenere il favore politico – in chiave referendum – della categoria dei genitori separati: «Gli ho detto di scrivere che il governo è consapevole del diritto del bambino di figli separati alla bi-genitorialità. Io poi provvedo a far sì che il messaggio venga diffuso e raggiunga un pubblico che si conta in circa 200mila iscritti alle associazioni coinvolte... riesci a farlo fare anche a qualche rappresentante del governo collegandolo al Sì al referendum?”».

Bianchi – che talvolta usa Carrai per mandare messaggi a Renzi – tra ottobre e novembre 2016 si affanna anche a ricucire con il presidente della regione Puglia Michele Emiliano: «Io la vedo così: al sud siamo in difficoltà, e lì più capo bastone di tutti è Emiliano. È vero che è stato contro sulla scuola l’Ilva, le trivelle. Ma alla base di tutto ci sta la sindrome del rifiutato... L’ho visto e lui si è lanciato in uno sfogo tipico dell’amante respinto, che non vede l’ora di avere un segnale d’attenzione. Se Matteo è d’accordo e vuole usare canali non politici, a me sembra un’occasione da provare».

Michele Emiliano (AP Photo/Luca Bruno)

Carrai secco: «Se Emiliano fa un’apertura, lui lo incontra». Qualche giorno dopo i due mediatori discutono in merito alle dichiarazioni di appoggio alle politiche renziane che sta facendo il governatore («un’altra dovrebbe farla oggi»), e mandano sms per ammorbidire Matteo e organizzare il rendez-vous tra i due leader piddini. «Marco, se i due si riconciliano sarebbe importante per il referendum, non meno del lavoro sui social che stai facendo». Carrai: «Penso di sì». Bianchi: «Mettici del tuo fratello: Emiliano è quasi cotto, appena mi dai il via gli faccio dire di mandare a Matteo un sms latte e miele».

La trattativa alla fine però non dà l’esito sperato: il governatore pugliese a fine novembre annuncia il suo No al referendum spiegando che la riforma per lui «è un attentato alla Costituzione». Carrai gira a Bianchi la dichiarazione ostile commentando: «Questa è la risposta dopo che Matteo ci ha parlato. Matteo è incazzato, dillo ai tuoi amici».

«Aiutiamo Berlusconi»

La sconfitta nelle urne rivoluziona i piani del Giglio magico. Renzi si dimette, presidente del Consiglio diventa Paolo Gentiloni. Carrai e Bianchi si leccano le ferite ma presto si ributtano nella mischia. La campagna per le primarie, che confermeranno Renzi a capo del Partito democratico, è alle porte. I Mr Wolf si muovono dietro le quinte, sempre a cavallo tra politica e affari. A dicembre 2016, Bianchi spiega a Carrai – che in passato aveva aperto un circolo di Forza Italia – che è il tempo di aiutare Silvio Berlusconi. «Non abbiamo nessuno che aiuti Berlusconi contro Vivendi?». Carrai: «In che senso?». Bianchi: «Nel senso che se trovassimo qualcuno che li aiuta, finanziariamente e/o industrialmente, a resistere a Vivendi, potrebbe esserci un significativo beneficio politico».

La partita di cui parla il presidente di Open ha come protagonista il raider francese Vincent Bollorè, patron del colosso Vivendi che in quei giorni stava provando a scalare in modo ostile Mediaset. «Pensiamo a Telecom. Se il Biscione con amici entra pesantemente lì, porta la guerra nel campo del nemico, e se riesce noi prendiamo due piccioni con una fava. Fammi sapere se occorre sondare qualche fondo americano che si appoggia a Santa Maria...ci sta che io venga indicato per far parte del pool di legali di Fininvest contro Vivendi. Nel caso, faresti una telefonata a Luigi B.?». Con ogni probabilità Bianchi domanda all’amico di intercedere con lui con Luigi Berlusconi, figlio del numero uno di Mediaset ed allora socio di Carrai nella Cgnal, società specializzata in big data.

Fratelli per sempre

Le questioni politiche a volte s’incrociano con questioni di famiglia. Nel febbraio del 2017 il presidente di Open è preoccupato che il fratello Francesco, allora sovrintendente del Maggio musicale fiorentino, possa essere estromesso dall’incarico.

Per volontà, paradosso, di un renziano di ferro come il sindaco di Firenze Dario Nardella. Bianchi è furioso: «Ti segnalo che Dario sta meditando di nuovo di far fuori Francesco, senza nessun motivo. Se succede che tu non lo fermi, mi incazzo, stavolta di brutto. Io reagisco te lo ripeto. Dario è un coglione...se la chimica di Dario non funziona con quella di Francesco, perché questa è la sola ragione, Dario prende quella chimica e se la caccia in quel posto», dice a Carrai.

Dario Nardella (lapresse)

L’amministrativista oggi indagato per corruzione per proteggere il fratello telefona anche a Salvo Nastasi, al tempo a palazzo Chigi e oggi segretario generale nel ministero di Dario Franceschini. Chiamate che non sortiscono alcun effetto.

«Licenziato in tronco», comunica Bianchi l’11 febbraio al Carrai. A Nardella «l’ho già mandato a fare in culo. Ho mandato sms a Lotti per sapere se aveva concordato la cosa con Dario, come Dario dice. Luca nega». Carrai: «Prima di fare qualunque cosa ci dobbiamo vedere, non parlare con nessuno e vieni da me.

La soluzione si trova». Due settimane dopo il sovrintendente Francesco annuncia di essersi dimesso per tornare «a tempo pieno alla propria attività professionale». La verità sembra più complessa.

Querele per tutti

Le conversazioni tra i due consiglieri evidenziano rapporti stretti con amministratori di partecipate pubbliche (come Renato Mazzoncini, ex ad di Ferrovie dello stato), e timori per le inchieste dei giornali sullo scandalo Consip e i rapporti incestuosi tra politica e affari del Giglio magico. Chi vi scrive, al tempo in forze all’Espresso, «va querelato per ottenere il punto, fidati: non possono dire che faccio le cose grazie a Matteo, va querelato altrimenti mi metto nei casini con i miei soci e i miei clienti», sostiene Carrai.

Anche Massimo Giannini – che ha attaccato l’imprenditore ipotizzando che fosse «in affari» con l’ad di Mps Marco Morelli – va denunciato. «Morelli era esterrefatto.

Ho chiamato Calabresi (Mario, ex direttore di Repubblica, ndr) che era imbarazzato».

Bianchi scrive a Renzi, disegnando la strategia che poi il leader di Italia viva userà a piene mani: «Il disegno mi pare chiaro: merda su tutti. Io risponderei: querele e citazioni, una al giorno, contro chiunque metta in dubbio la nostra onestà. A raffica».

Un Cerberus per Alitalia

Finora sui giornali erano stati pubblicati alcuni estratti, abbastanza criptici, delle agende riempite da Bianchi, nelle quali il presidente di Open segnalava incontri con politici e amministratori pubblici, temi d’interesse e nomine governative. Le chat tra due dei pesi massimi del gruppo fiorentino sono però più chiare ed esplicite, e disegnano bene la commistione tra interessi privati e pubblici.

Decine di messaggi del marzo 2017 riguardano il delicato dossier di Alitalia. Carrai e Bianchi se ne occupano trattando addirittura con fondi interessati all’acquisto. Bianchi ha rapporti stretti con l’avvocato Luigi Santa Maria (probabilmente lo stesso citato per Vivendi) che lavora per il fondo americano Cerberus, interessato a rilevare la compagnia, al tempo guidata dai commissari Luigi Gubitosi ed Enrico Laghi.

Rivali nell’affare erano Lufthansa e EasyJet. Il 4 aprile, Santa Maria scrive un sms a Bianchi: «Caro Alberto, la soluzione Gubitosi/Laghi è una supercazzata. Gubitosi è bruciato e Laghi non ha minimamente lo standing internazionale adeguato. È troppo romano pure nella parlata. Se necessario, purché ci sia tu e il piano sia il mio, va benissimo anche la sua partecipazione. Sia chiaro la tua presenza è una condicio sine qua non imprescindibile».

Il presidente della fondazione di Renzi, che i pm credono essere solo un’articolazione di partito, gira il messaggio a Carrai, che dice che non può certo entrare nella scelta del commissario. Allora Bianchi risponde all’emissario di Cerberus: «Io sarò della partita per aiutarvi, esclusi i ruoli commissariali. Troveremo insieme il modo più utile e proprio». Carrai apre uno spiraglio sul business: «Noi possiamo proporre a chi sarà il commissario un possibile acquirente con un piano: se lo accettano bene, sennò amen».

L’interesse di Cerberus per rilevare Alitalia diventa fatto pubblico solo mesi dopo, ma nessuno sapeva che dietro l’offerta c’era la ragnatela dei due Rasputin di Open. Tutto lecito, ma forse discutibile sotto il piano dell’opportunità. Per la cronaca, la trattativa tra Cerberus e il governo Gentiloni non decollerà mai.

Coppia d’acciaio

«Diciamolo tra noi, che tanto non ci sente nessuno: libro Avanti (di Renzi, ndr): cazzata. Polemiche su Enrico Letta: cazzata. Problema antipatia appena apre bocca: reale. Boschi: palla al piede che lui continua a difendere, e quindi stura a pettegolezzi e basta. Mi dispiace da matti», scrive Bianchi nel 2017 criticando Renzi, ricordando pure «i due milioni spesi per qual referendum del cazzo e i social, senza averli!».

L’amarezza per la crisi politica del loro capo non impedisce però alla coppia di parlare del loro argomento preferito: gli affari: Carrai, presidente di Aeroporti Toscana passato da poco al gruppo controllato dal miliardario Eduardo Eurnekian (tra i finanziatori di Open con la sua Corporacion America), domanda a Bianchi se qualcuno può essere interessato a una «miniera di litio», di cui il suo azionista di maggioranza ha la concessione in Argentina.

«Pensavo ad Enel. Inoltre a una miniera di carbone che vorrebbe sfruttare», dice all’amico, che sedeva al tempo nel cda del colosso elettrico. Bianchi chiama subito il suo ad Francesco Starace, che però risponde picche: «Enel non è interessata a produrre batterie».

Il gemello di Renzi, con cui si narra abbia passato da giovane notti in bianco giocando a Risiko, riesce invece a fare tombola con l’acciaio. A Piombino nel 2018 diventa advisor del colosso indiano Jindal e coordina la trattativa per l’acquisto degli impianti ex Lucchini.

Spettatore interessato, il governo e l’allora titolare dello Sviluppo economico Carlo Calenda, che era stato fatto ministro da Renzi e poi confermato da Gentiloni. Bianchi offre una mano a Carrai nel deal: «Marco, Calenda ha fretta, ma Jindal nessuna. Quindi abbiamo un problema. Va detto a Calenda che gli indiani stanno esaminando la cosa ma Umberto Tombari (altro avvocato considerato vicino al gruppo dei renziani, ndr) e io non abbiamo ritorni sulla bozza. Psicologicamente se mettiamo troppa pressione su Jindal quello saluta e se ne va, perché di Piombino gliene frega il giusto». Carrai: «Vai in questa cazzo di riunione e se problemi chiamami, e chiamo Carlo». Bianchi a stretto giro: «Noi stiamo lavorando ma tu devi convincere Jindal a firmare STASERA. Calenda è categorico».

L’affare alla fine si chiude, e Carrai entra nelle grazie degli indiani. Da un anno è diventato vicepresidente esecutivo del gruppo in Italia. Non sappiamo quanto guadagni per la carica, ma un contratto mandato da Carrai a Bianchi ipotizzava per le consulenze una success fee del 2 per cento sul valore delle transazioni. «Sul compenso non mi pronuncio, anche se forse potresti chiedere il 2,5 per cento», suggerisce Bianchi al membro del cda Open.

L’inchiesta sulla fondazione non era allora entrata nel vivo. Oggi il timore dei due consiglieri di Renzi non riguarda solo l’aspetto penale («siamo innocenti e lo dimostreremo», ripetono all’unisono) ma anche quello economico: da sempre abituati a muoversi lontano dai riflettori, l’eccesso di esposizione mediatica potrebbe far allontanare clienti presenti e futuri, preoccupati dalle accuse dei magistrati fiorentini. Colpito dalle inchieste e dagli scandali il giglio magico sta sfiorendo, e non sarà facile per il gruppo mantenere in piedi le relazioni con il mondo politico e della finanza che hanno permesso di scalare il potere e fare affari d’oro.

 

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