La storia riconosce nei “portavoce” eletti del Movimento 5 stelle i padri morali dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ma la legge è stata varata nel 2013 dall’allora premier e oggi segretario del Pd Enrico Letta su pressione di Matteo Renzi.

Lo stesso Letta ne diede annuncio festante su Twitter: «In consiglio dei ministri manteniamo la promessa».

Il taglio era tra le promesse della Leopolda 2011 di Renzi, e i renziani, scriveva l’Ansa, mentre era ancora in corso la riunione del consiglio dei ministri, festeggiavano la vittoria.

Il portavoce del Pd Lorenzo Guerini (oggi ministro della Difesa) rivendicava «un positivo effetto Renzi sull'esecutivo» festeggiando «un primo importante risultato». Letta garantiva di pari passo sulla tenuta del suo esecutivo finendo con l’essere smentito da lì a poco.

La legge sarà approvata nel 2014, subito dopo che Renzi disse a Letta di «stare sereno» per poi cacciarlo da Palazzo Chigi prendendo il suo posto il 17 febbraio 2014. Tre giorni dopo il voto definitivo alla camera: a favore Pd, FI, Ncd, Scelta Civica e Per l'Italia. Contrari Lega Nord, Sel e Movimento 5 Stelle.

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Da Monti a Renzi

Il primo a dare un colpo al finanziamento pubblico ai partiti senza tuttavia eliminarlo è stato Mario Monti. Il disegno di legge del 2012 varato dall’esecutivo guidato dal tecnico ha infatti fissato un tetto alle erogazioni pubbliche a 91 milioni, da elargire per il 70 per cento come rimborso. Il restante 30 per cento a titolo di cofinanziamento. 

In venti anni, dal 1993 al 2013, ha ricordato Emanuele Felice su Domani, i partiti hanno incassato circa 2,7 miliardi di rimborsi pubblici, per spese che però in media sono il 30 per cento di questa cifra.

La nuova legge Monti ha stabilito che per avere diritto al finanziamento i partiti devono dotarsi di un atto costitutivo e di uno statuto, e che questi devono essere conformi ai principi di democraticità interna.

Dopo quella legge, le critiche dei grillini ma anche la linea “rottamatrice” di Matteo Renzi, hanno portato ancora avanti le pressioni dell’opinione pubblica finché Letta non ha deciso di intervenire. Dal 2014 così si è passati a una forma indiretta di finanziamenti, ai parlamentari e ai gruppi parlamentari, tramite donazioni o tramite il 2 per mille nel secondo caso.

Al 2 per mille, si legge nella testo, possono accedere i partiti con uno statuto e regolarmente iscritti al registro dei partiti. Una modalità a cui adesso il Movimento 5 stelle, il più acerrimo nemico dei condizionamenti, ha deciso di ricorrere segnando il suo passaggio a partito politico.

Alessandro Di Battista, ex pentastellato che allora siedeva in Parlamento, ha gioco facile a ricordare sui social: «Il Movimento votò contro la legge del governo Letta che istituiva il 2X1000 ai partiti sostenendo che fosse un finanziamento pubblico mascherato (sempre soldi pubblici sono) ed era un bel Movimento», adesso invece, lamenta, «il neo-movimento si avvita su se stesso. Incapace di ottenere donazioni puntando sull'identità».

La Spazzacorrotti

Mentre da una parte Renzi andava contro il finanziamento pubblico, dall’altra però lavorava con la fondazione Open, guidata dall’avvocato Alberto Bianchi organizzando ogni anno la sua kermesse personale. Oggi sappiamo dall’inchiesta in corso alla procura di Firenze, che vede indagato il senatore per finanziamento illecito ai partiti, che la fondazione ha ricevuto soldi da gruppi di interesse e uomini d’affari, dalla British American Tobacco al politico imprenditore Gianfranco Librandi, deputato tra i renziani di Italia viva.

Per far fronte alle complicazioni emerse dalla gestione delle fondazioni, nel 2019, durante il governo giallo-verde Conte I, si è aggiunta la legge Spazzacorrotti fortemente voluta dal ministro della Giustizia pentastellato Alfonso Bonafede. Per la prima volta sono stati dati alle fondazioni politiche gli stessi obblighi di trasparenza dei partiti. La fondazione Open è la prima a tremare. L’ex presidente e avvocato di Renzi, Bianchi, indagato per traffico di influenze, infatti scrive ai deputati Luca Lotti e Maria Elena Boschi: «La Fondazione deve essere chiusa in ogni modo entro il 31 gennaio, altrimenti entriamo nell’orbita di applicazione della l. 3/2019, con le complesse conseguenze che ne seguirebbero».

Le critiche di allora

Ogni partito e ogni parlamentare è obbligato a dichiarare chi sono i suoi finanziatori, ma già nel 2013 la legge che avrebbe dovuto dare sollievo alle casse dello stato ha suscitato qualche perplessità, a partire dalla presidente della Camera, Laura Boldrini (all’epoca Sel e oggi Pd): «Serve una seria riflessione – avvertiva – così come bisogna riflettere su come regolamentare le lobby. Non sono soddisfatta, anzi ho una grande preoccupazione per la situazione attuale», aveva detto. La presidente aveva poi notato: «Abbiamo deciso di abbandonare il finanziamento pubblico che non era difendibile, ma ora siamo senza. Siamo davvero sicuri che il privato finanzi la politica perché ha amore della cosa pubblica? Non saranno alla fine tutti a presentare il conto?».

Il caso Renzi

Il caso Renzi-Arabia Saudita ha complicato ancora di più lo scenario. Renzi infatti percepisce non donazioni, ma regolare retribuzione da privati e soggetti esteri per le sue conferenze e consulenze. Come rivelato da Domani, persino dal governo dell’Arabia Saudita: siede infatti nel board del FII Institute, un organismo controllato dalla famiglia reale.

Una situazione che, seppure consentita dalla legge ha fatto molto discutere: è opportuno che un parlamentare prenda soldi da un paese straniero o da un qualunque altro portatore di interessi senza nemmeno doverlo dichiarare? Per questo Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, ha presentato una proposta di legge che vieta sia ai parlamentari italiani sia a quelli europei di percepire denaro da qualunque portatore di interesse.

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