Frugare nelle vite degli altri è l’ossessione che l’ha reso potente e schiavo. Carpire segreti e usarli contro i nemici, un impulso incontenibile, tanto da non potersene liberare nemmeno durante il processo a suo carico. C’è ricascato, in diretta e in aula, consegnando nelle mani dei giudici la prova dell'accusa principale che da sempre gli scaricano addosso: spiare.

Prigioniero di sé stesso ha sottratto dati sensibili dal computer di uno dei testimoni che l’ha trascinato sul banco degli imputati, la descrizione di file con foto di famiglia, preliminari di vendita di immobili, dichiarazioni dei redditi, agende, appunti, tutti inseriti in una memoria che avrebbe dovuto rappresentare la sua estrema difesa.

Informazioni della sfera personale che, corpo del reato, saranno trasmessi agli uffici di procura. I suoi legali non hanno firmato il documento e di fatto ne hanno preso le distanze, momento già di per sé irrituale se non clamoroso e che ha chiuso una delle ultime udienze del dibattimento d’appello contro Calogero Antonio Montante detto Antonello. Caltanissetta, aula bunker, fine dicembre 2021.

Un ricattatore seriale

Omar Abd el Naser

Siciliano del paese di Serradifalco, rupe del falco, «luogo da cui spiccar volo e volo rapace», scriveva nel suo Candido Leonardo Sciascia che era di quelle parti, Calogero Antonio Montante detto Antonello è l'uomo che ha segnato una lunga stagione italiana di inganni e trame.

Padrone della regione quando governatore era Rosario Crocetta, a capo di tutte le camere di commercio dell’isola, vicepresidente di Confindustria con delega alla Legalità, per la giudice Graziella Luparello - che in primo grado lo ha condannato a 14 anni di reclusione per associazione a delinquere e dossieraggio - è un «ricattatore seriale» che «non solo gestiva potere ma lo creava».

Protetto da ministri dell’Interno come Annamaria Cancellieri e Angelino Alfano, direttori dei servizi segreti come Arturo Esposito e direttori della Dia come Arturo De Felice, presidenti dell’Eni come Emma Marcegaglia o di Confindustria come Giorgio Squinzi e Vincenzo Boccia, riverito da uno sciame di generali e prefetti, magistrati, banchieri, questori, funzionari di alto rango delle amministrazioni statali, Montante è stato costruito simbolo dell’Antimafia nonostante avesse un torbido passato e radici in ambienti criminali.

Una scalata irresistibile e misteriosa. Da un posto “nel cuore” del boss Paolino Arnone a un posto nell’Agenzia dei beni confiscati, nomina fortemente voluta da Alfano, in intimità con Montante anche quando era già sotto indagine per concorso esterno.

Come questo sia potuto accadere non è ancora del tutto chiaro, l’inchiesta poliziesca e un primo giudizio hanno svelato intrighi e complicità, ma le responsabilità penali non sono certo bastate a spiegare la vicenda in ogni piega e scoprire l’origine di una sofisticata operazione di presa di possesso dell’Antimafia italiana. Il caso Montante comunque, dietro di sé, ha lasciato molti indizi su cos’è diventata la mafia siciliana dopo le stragi del 1992.

La “mafia di ritorno”

Torniamo al processo di Caltanissetta e torniamo a una mattina di fine dicembre 2021, l’aula bunker è quella dove si sono celebrati i processi contro gli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lì dentro l’imputato fa le sue mosse per ribaltare il verdetto. E dimostrare che è stato fermato da “una mafia di ritorno” (braccio armato di essa alcuni magistrati, alcuni poliziotti e alcuni giornalisti) che ha voluto annientare una “rivoluzione” siciliana portata avanti dal suo socio Ivan Lo Bello, dal senatore Beppe Lumia, da alcuni imprenditori riciclati nel mondo della legalità e naturalmente da lui stesso.

L’espressione “mafia di ritorno“ in verità ha il copyright di uno dei suoi due avvocati che non se la sono sentita di apporre la firma sotto quella memoria con i dati trafugati, il professore di procedura penale Carlo Taormina.

Difensore di eccellenti personaggi fra i quali Bettino Craxi e l’ufficiale delle SS Erich Priebke, il neofascista Franco Freda e il guru di San Patrignano Vincenzo Muccioli, mattatore nei talk show, fenomeno “dei processi fuori dal processo”, un profilo Facebook con più di centomila follower, Taormina ha avuto anche una brevissima esperienza da sottosegretario al ministero dell'Interno nel secondo governo Berlusconi del 2001.

Avventura che vale la pena di ricordare. Il professore rappresentava le vittime del racket per conto dello stato e, contemporaneamente, difendeva imputati contro i quali lo stato si era presentato parte civile. Fu costretto alle dimissioni per conflitto di interessi. Un giorno arrivò al tribunale di Brindisi per assistere “Ciccio La Busta” al secolo Francesco Prudentino, uno dei re del contrabbando di sigarette e all'epoca sospettato di affiliazione alla Scu, la Sacra Corona Unita pugliese.
L’altro avvocato di Montante è Giuseppe Panepinto, studio legale a Caltanissetta in corso Vittorio Emanuele 126, allo stesso indirizzo c'è anche lo studio dell'avvocato Francesco Panepinto, suo zio. La cui moglie, Virginia, era socia della moglie di Montante, Antonella. Tutto in famiglia.

Il potentato dei Panepinto

In più il giovane Panepinto ha curato una trattativa immobiliare su Milano svelata dal mensile siciliano “S”, un articolo di Rosario Sardella che ricostruiva come l’Eicma, la società pubblica e privata che organizza l’Esposizione internazionale delle moto, il più importante evento mondiale del settore, presidente fino al 2018 Antonello Montante, acquistava un palazzo di mille metri quadri in via Mecenate dalla “Paco srl”. Chi era uno dei soci della “Paco srl”?

Proprio il giovane Panepinto. C’è dell’altro sui Panepinto, un potentato della Sicilia interna. L’avvocato di Montante è scivolato, come socio occulto dell’“Antiquadomus srl”, in un’inchiesta della procura di Caltanissetta sull'affidamento di lavori pubblici in un paese della provincia.

Con lui, a trarne beneficio con incarichi fiduciari il solito zio Francesco e il cugino Massimo Dell’Utri, solo omonimo del più famoso Marcello e legatissimo all’ex ministro Saverio Romano, uno che è uscito da un’indagine di mafia con la vecchia formula dell'insufficienza di prove. La famiglia Panepinto al completo, inoltre, ha difeso Antonello Montante sin da 2005 in un processo ad Asti.
Ci sarebbe da aggiungere qualcosa anche su altri avvocati, difensori di fiancheggiatori di Montante, avvocati che hanno legami familiari con compari di nozze dei boss di Serradifalco. Ma per ora fermiamoci qui, ai Panepinto. Per quanto siano antiche le relazioni e gli interessi con l'ex vice presidente di Confindustria, il giovane Giuseppe non ha avuto il pelo di legittimare la memoria del suo assistito presentata nel dicembre scorso alla corte.

Al contrario, imbarazzatissimo, si è giustificato in aula: «È una produzione personale del Montante». Personale. Traduzione: noi avvocati c'entriamo niente. Andando a controllare gli atti ci siamo accorti che “il Montante” ha comunicato ai giudici il deposito di una chiavetta usb che inchioderebbe Alfonso Cicero, e cioè il suo grande accusatore, ma è un deposito fasullo: la chiavetta non c’è.

C’è soltanto il foglio con l'elenco delle spiate. Sono i giochi di prestigio di un mago, o per dirla più tecnicamente con le parole della giudice che lo ha condannato in primo grado, «è la spiccata attitudine di Montante alla manipolazione della realtà mediante manovre di varia natura».

La realtà di Montante è una spaventosa macchina di dossieraggio per intimidire tutti coloro che non si sottomettono ai suoi ordini, è la falsificazione degli atti, la realtà di Montante è la cancellazione del suo passato oscuro e la contraffazione del presente. Per dimostrare la battaglia intrapresa contro mafia e corruzione ha promesso alla corte «una chilometrica produzione documentale contenente le centinaia di denunce che ho presentato contro Cosa Nostra».

Nella sua memoria, sempre quella non firmata dagli avvocati, ha auto certificato un bluff lungo almeno dieci anni. C’è niente anche lì, nemmeno la segnalazione contro un piccolo estorsore, un esposto contro un usuraio di paese, il nome di un imprenditore cacciato da Confindustria per collusione. Nulla.

Uno spettacolo indecente

La voce di Calogero Antonio Montante detto Antonello è rimbombata in aula per cinque udienze, tanto è durato il suo interrogatorio la scorsa estate, tonnellate di fango rovesciate sui suoi accusatori, la consueta alterazione dei fatti, calunnie riproposte con traballante memoria, spettacolo indecente con lui che sembrava la vittima e le parti civili gli imputati.

L’unico a gongolare in aula era la pubblica accusa, il procuratore generale Giuseppe Lombardo. Preso atto che Montante non si è mai difeso dalle contestazioni, interessato esclusivamente a sporcare chi ha disvelato la sua impostura, gli ha rivolto solo un paio di domande e ha considerato chiusa la partita.

Magistrato molto schivo e preparato, si è letto in poche settimane le decine di migliaia di pagine del fascicolo processuale. Ci dicono, gli addetti ai lavori, che siano più di quelle dell'inchiesta sulla strage di Capaci.

Prima e dopo sono accadute un po’ di cose. All’inizio del dibattimento gli avvocati Taormina e Panepinto hanno tentato la carta della disperazione, avanzando richiesta per annullare il verdetto di primo grado, «in quanto Montante era incapace di partecipare coscientemente al giudizio».

Gli hanno dato del rincoglionito. Durante il processo, dopo l'estate, c'è stato un black out di un paio di mesi a causa di una malattia riferita dall'imputato. Udienze rinviate. Nel frattempo, qualcuno ha avvistato Montante a una festa e gli ha pure scattato una bella foto davanti a una torta. Qualcun altro lo ha intercettato mentre passeggiava con la cagnolina al guinzaglio per le strade di Asti, città dove aveva un fabbrica per la produzione di ammortizzatori per veicoli pesanti e dove adesso ha l’obbligo di dimora e di firma nel libro nero dei sorvegliati speciali. Fra le carte dell'indagine sono emersi intanto i suoi conti segreti in Svizzera.

I giudici e i boss

Abituato per una decina di anni alla prima fila d’onore alle inaugurazioni degli anni giudiziari, in buoni rapporti con il presidente della corte di appello di Caltanissetta Salvatore Cardinale e con il procuratore generale Giuseppe Barcellona, Antonello Montante ha esibito le altolocate frequentazioni in toga dimenticando però quelle sull'altro confine. I mafiosi.

Una mezza dozzina di pentiti parlano del suo “marchio” di fabbrica e dei rapporti con quelli là, soprattutto con Vincenzo Arnone figlio del capomafia di Serradifalco e poi capomafia a sua volta quando il padre Paolino è morto. Ma anche con Dario Di Francesco, altro reggente di Cosa Nostra del paese prima di collaborare con i magistrati. Ci sono racconti di feste di compleanno passate insieme ai “don”, c’è anche un Natale dove il boss Vincenzo Arnone, «in segno di rispetto”, gli fa visita nella sua villa. Non è fiction, è ciò che è realmente avvenuto in Sicilia prima che qualcuno scegliesse Montante per rappresentare il volto dell’Antimafia. Un delitto perfetto. La giudice Luparello lo ha definita “mafia trasparente».

La prima vita di un picciotto di paese, che cresce circondato da uomini d'onore che uno dopo l'altro avrebbero occupato i vertici della loro famiglia, riemerge in tutta la sua oscenità nell'appassionato intervento in aula dell'avvocato di parte civile Annalisa Petitto, difensore di Alfonso Cicero, il teste che ha mandato in frantumi il sistema Montante.

L’avvocatessa Petitto ha riassunto così la strategia difensiva di Montante: «Con la presentazione di una miriade di denunce false voleva minare la sua attendibilità dopo che Cicero si era presentato in procura per denunciarlo, ha pianificato uno spietato piano ritorsivo ai suoi danni nella certezza che questi si sarebbe tolto la vita».

Agli atti c’è un’intercettazione ambientale raccapricciante, fra Montante e uno dei suoi tirapiedi. Si augura che Cicero tenti il suicidio e ringhia: «Moriranno..moriranno tutti».

C’è tragedia e c’è farsa intorno al rocambolesco siciliano di Serradifalco, meccanico di mestiere come risulta dalla carta d'identità, incertissimi i suoi percorsi scolastici (un giorno dichiara al pubblico ministero di avere frequentato l'istituto per geometri, un altro giorno racconta in corte di appello «di avere una maturità superiore, una tecnica e una in scienze umane»), una laurea honoris causa smentita con fastidio dal magnifico rettore della Sapienza di Roma e una laurea assegnata dall'improbabile università di Berkley, scritta con una “e” in meno della californiana Berkeley dei premi Nobel.

Una favola l’azienda di biciclette fondata dal nonno negli anni '30 che riforniva di mezzi a due ruote i Reali Carabinieri, tutti veri gli accessi abusivi che imponeva ai poliziotti suoi amici nella banca dati del ministero dell'Interno. Ne ricavava informazioni “calde” su giornalisti, imprenditori, uomini politici.

La manina amica

Molto interessanti i buchi nella sua scheda del Viminale. Si è scoperto, almeno secondo un'informativa dei carabinieri, che qualcosa è sparito: «Tratto in arresto il 23 novembre del 1992 a Genova per reato di truffa..non esiste in banca dati documentazione relativa all'arresto». E ancora: «Segnalato dalla Guardia di finanza di Caltanissetta alla locale procura il 23 maggio 2002 per i reati.. sconoscesi esito procedimento… segnalato dalla guardia di finanza di Asti per i reati… sconoscesi esito procedimento… segnalato dall’ufficio Frontiera Area di Villafranca il 28 dicembre 2007 per inosservanza delle norme sulla sicurezza della navigazione sconoscesi esisto procedimento». Una manina amica.

In aula ha mentito su tutto. Ai giudici basterà controllare le date e le firme. Giura di essersi costituito parte civile in un processo contro mafiosi di Gela, l’atto però è sottoscritto da Marco Venturi, imprenditore e altro accusatore di Montante.

Ha ammesso di avere fatto spiare Alfonso Cicero, per controllare i suoi precedenti penali prima che si insediasse in un consorzio industriale. Falso: Cicero è diventato commissario precedentemente e lui lo ha fatto “controllare” soltanto dopo. Questi “accessi” nei computer del Viminale sono stati gestiti, direttamente o indirettamente, da un ex poliziotto che è diventato il capo della security di Confindustria. Si chiama Diego Di Simone e, consecutivamente per sette anni, ha passato notizie riservate non solo a Montante ma - a suo dire - anche a tutta la Confindustria di Emma Marcegaglia.

Si è difeso male Di Simone in aula, sparando nomi nel mucchio nel tentativo di fare rumore: «In Calabria le indagini sulla ‘Ndrangheta le facevamo noi per conto dell'allora procuratore capo Giuseppe Pignatone».

La Confindustria che indaga per conto dello Stato, una polizia “parallela” tollerata da alti magistrati. Il delirio. In primo grado Di Simone è stato condannato a sei anni e quattro mesi. E proprio in questi giorni, il capo della security di viale dell'Astronomia è finito in un'altra inchiesta insieme a Montante.

Un’altra associazione a delinquere

La Presse

È la seconda associazione a delinquere che fa a capo al meccanico di Serradifalco, quella che aveva conquistato la regione siciliana. Dentro ci sono l'ex governatore Rosario Crocetta, l’ex assessore Mariella Lo Bello e il suo inseparabile braccio armato che è la funzionaria Maria Grazia Brandara, un paio di imprenditori (Carmelo Turco e Rosario Amarù) che facevano favolosi affari con l’Eni alla raffineria di Gela , il re della “munnizza” siciliana Giuseppe Catanzaro.

Nella lista compare pure Linda Vancheri, fedelissima di Montante, sua segretaria personale, quella che Matteo Renzi voleva ministra nel suo governo. La Vancheri attualmente è dirigente di Confindustria e, come Montante, ha il vizietto di registrare le telefonate e conservarne le trascrizioni.

Poi c’è un’altra indagine ancora. Imputati l’ex capo della direzione investigativa Antimafia Arturo De Felice e il colonnello dei servizi segreti Giuseppe D’Agata. In stile Stasi, la polizia segreta della Germania orientale prima della caduta del muro, per far contento Montante i due perseguitavano giornalisti e imprenditori inventandosi indagini dal nulla.

“Quest’uomo è pericoloso”

Si deciderà il loro rinvio a giudizio nei primi giorni di marzo, quando è prevista anche la sentenza d'appello del processo Montante. Per lui, il procuratore generale Giuseppe Lombardo ha chiesto 11 anni e quattro mesi di carcere. E ha chiuso la sua requisitoria riportando le parole dei complici del siciliano di Serradifalco quando, terrorizzati, di Montante dicevano: «Quest’uomo è pericoloso».

In quante altre inchieste è rimasto incagliato il Padrino dell'Antimafia? A parte le due associazioni a delinquere e una mezza dozzina di pendenze che ha accumulato per calunnia e diffamazione, è imputato ad Asti per una bancarotta fraudolenta per il fallimento della “Msa”, la sua azienda di ammortizzatori.

E sempre aperta resta l’inchiesta che ha dato inizio a tutta questa storia: quella sulla mafia. Ci sono orme che portano all'ex patron del gruppo alberghiero Valtur Carmelo Patti, prestanome di una star a Castelvetrano. Orme che portano al fantasma, all'imprendibile Matteo Messina Denaro. I fatti sono questi, vedremo come saranno interpretati dai giudici.

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