Andrea Orlando, tre convegni in un giorno, uno dei cattolici, uno dei liberali, e uno della sinistra, a Brescia, dove va lei. Serve un partito dei cattolici?

A Brescia non c’è un convegno della sinistra che, a livello nazionale è composta da molte personalità, ma un’iniziativa che segue ad altre promosse in Lombardia da dirigenti e consiglieri regionali. Rispetto ai grandi cambiamenti in corso, non credo che il punto divisivo sia quello fra laici e cattolici ma fra chi ancora nutre una fede religiosa nel mercato, chi è più scettico e chi è rinsavito. Oggi ci sono cattolici che mantengono un’impostazione liberale e altri che interpretano in modo persino radicale le indicazioni di Bergoglio. Questo non esclude né l’esigenza né la possibilità di un centro che voglia partecipare a un progetto di centrosinistra, ma non credo c’entri la fede. Paradossalmente sono più i laici a doversi interrogare, per capire che certo individualismo è finito.

Sono riflessioni interne al Pd o serve un centro al centrosinistra?

Non credo a un’accezione estremizzata della vocazione maggioritaria, e non escludo che qualcosa possa restare fuori del Pd. Ma non “i cattolici”: le forze liberali e moderate contrarie all’involuzione regressiva del paese.

Nel Pd si discute poco, come sostiene Prodi? È «un partito del capo», come sostiene Zanda?

Dopo la sconfitta del 2022, il tema era la sopravvivenza del Pd, quindi c’è stato un po’ di sacrificio della dialettica a favore della ricerca dell’unità. Ma oggi la discussione è giusto farla. Serve anche a ridefinire il pluralismo interno su presupposti politico-culturali e non leadership personali o contingenze congressuali. Ma non contrapporrei la discussione in sedi esterne ma contigue al Pd a quella nel Pd. Non per discutere su chi aveva torto nel Novecento, ma su quali idee servono oggi. È paradossale che per tutta la sinistra europea a suonare la campana della fine del neoliberalismo sia Draghi.

Se si aprisse la discussione, il Pd dovrebbe affrontare temi divisivi, la “fede” nel mercato, la pace e la guerra: non rischia di sancire differenze irriducibili?

Non si può far finta che queste differenze non ci siano. Su come costruire la pace si può avere un’opinione diversa, ma questo obiettivo non può essere cancellato, anche perché è uno degli elementi fondanti di tutte le culture che hanno dato vita al Pd.

Il Pd è un «partito del capo» o i dirigenti sono troppo silenziosi?

Ci si può anche lamentare del «partito del capo», ma, lo dico con affetto, è strano lo faccia chi ha innescato quella dinamica. Non è stata Elly Schlein a inventare le primarie e un certo plebiscitarismo interno. Che pesano, ma non devono rendere impossibile la discussione anche sull’idea di partito. E oggi credo che la leadership abbia interesse a promuoverla, anzi a sollecitarla. Non dobbiamo averne paura.

Meloni ha il vento in poppa. La vostra coalizione a che punto è?

Dobbiamo fare notevoli passi avanti. Per questo la discussione nel Pd è anche la condizione per promuovere un progetto di coalizione. Il Pd, dopo le tornate elettorali, ne è l’asse, ma dobbiamo esercitare questo ruolo.

Lei è della linea «testardamente unitaria» e «nessuna polemica»?

Sì, ha fatto bene dove si è vinto e il Pd, ovunque, è riconosciuto come la forza che vuole di più questa prospettiva. Ma ora dobbiamo trovare le forme e l’iniziativa politica per fare vivere quest’unità. Il che significa campagne specifiche ma anche cominciare a sfidare altre forze su un progetto di paese. Ho accettato l’incarico di occuparmi della reindustrializzazione del paese, della transizione ecologica e di quella sociale che ne consegue, perché è un tema sul quale una proposta del Pd può sfidare gli altri su un ragionamento sulla prospettiva. Sto coinvolgendo chi in questi anni se ne è occupato, faremo un giro delle crisi e delle eccellenze del nostro sistema produttivo. È uno dei temi che il governo non ha in agenda, e per questo la forza di Meloni può trovare qualche crepa.

C’è un problema di leadership?

No, però giocano pregiudizi, anche patriarcali, e vecchie impostazioni. È legittimo che il segretario del partito più grande abbia questa ambizione. Posso capire che non lo si dia per scontato, che debba derivare da regole condivise. Non che lo si precluda senza veri argomenti.

Vale anche per le comunali di Genova? M5s si dovrà accodare?

I rapporti di forza sono un dato, ma non abbiamo mai posto candidature in quanto espressione del Pd, ma in quanto sapessero mettere insieme la coalizione. Anche la mia alle regionali fu avanzata facendo salva la possibilità di averne una più espansiva. Il Pd deve seguire lo stesso metodo. Ma se questo automatismo non lo esercitiamo noi, la forza principale, mi pare difficile rivendicare il Cencelli. È giusto cercare la personalità che più allarga il campo. Se ce ne fosse una del M5s, non ci sarebbe nessun pregiudizio. Come è accaduto in Liguria.

A Genova ci sarà l’alleanza dal primo turno, con M5s e centristi?

Penso che ci sarà una coalizione, e più larga di quella delle regionali. E che farà tesoro degli errori compiuti alle regionali. Partiamo con dieci punti di vantaggio, mi pare ci sia meno voglia di caratterizzarsi in funzione dei veti.

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