Secondo Matteo Renzi l’ipotesi Berlusconi al Colle non esiste, «c’è invece una possibilità per Mario Draghi ma questa è una scelta difficile per noi del parlamento».

L’ipotesi Berlusconi non esiste, anche se Gianni Letta, in una conversazione «rubata» da Askanews, dice che l’ex cavaliere «è ancora convinto». E infatti tiene ancora la Lega e Fratelli d’Italia a bagno maria.

Ieri ha fatto sapere che «scioglierà» la riserva «prima» del primo voto. Potrebbe essere domenica. I due alleati dovrebbero dunque stare fermi in attesa della sua scelta.

Il centro destra

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Matteo Salvini, irritatissimo, ha fatto trapelare il suo lavoro da aspirante kingmaker (ieri ha incontrato Giuseppe Conte e Maurizio Lupi); Giorgia Meloni, altrettanto infastidita, ha minacciato di convocare il vertice delle destre, se il vecchio leader non si decide. Anche l’ipotesi del Mattarella bis scende.

Berlusconi avrebbe voluto proporla agli alleati, ma oltre al nuovo commiato del presidente della Repubblica ieri davanti al Csm, sul reincarico è calato il niet di FdI, con parole non elegantissime di Ignazio La Russa.

Per votarlo, Forza Italia e Lega dovrebbero di nuovo rompere con l’alleata. Resta dunque in campo Draghi, «così come le gocciole lungo il pendio formano un torrente impetuoso», recita un parlamentare che cita Alessandro Manzoni per dire che il piano si sta inclinando e l’inerzia porterà tutti a convergere sul premier. Nel Pd e fra i Cinque stelle sono ancora una valanga i parlamentari ad avanzare dubbi.

Ma ieri Luigi Zanda, senatore di esperienza e vicino al Colle, ha lasciato cadere una frase durante un’intervista a Tpi: «Se Draghi non va al Quirinale, dovrebbe presentare le dimissioni da presidente del Consiglio al nuovo capo dello stato. È la prassi e dovrebbe farlo anche lui».

A qualche collega è suonato più come un avviso ai naviganti: se Draghi non viene eletto al Colle, rischiamo di non averlo più neanche a palazzo Chigi.

Serve un patto

Un passetto alla volta, nel Pd la strada di Draghi si apre. Debora Serracchiani, la presidente dei deputati, insiste sulla necessità di un patto di fine legislatura «che tenga insieme sia il Quirinale che palazzo Chigi».

Ma alla domanda se a guidare il patto ci debba essere un tecnico o un politico, ha risposto: «Intanto andiamo sul patto, poi vediamo da chi sarà guidato». Anche il ministro Andrea Orlando (ieri destinatario di solidarietà bipartisan per una lettera di minacce), insiste su «nessuna pregiudiziale su Draghi al Colle purché si mantenga la rotta dell’unità nazionale», viste le scadenze di giugno del Pnrr.

Il ministro Lorenzo Guerini tace, ma i suoi spiegano che il premier «è il candidato più probabile». I franceschiniani restano ancora perplessi, ma l’ex ministra Roberta Pinotti a un collega senatore ha ammesso che «se è Draghi sarà Draghi».

E un importante dirigente che fin qui aveva decisamente escluso il trasloco del premier al Colle, ieri ha alzato le mani: «La possibilità di votarlo è seria, ma prima il centrosinistra deve prendere un’iniziativa politica». Insomma, anche i più recalcitranti devono prendere atto che l’opzione Draghi è quella che garantisce di più la legislatura.

E cominciano a prendere sul serio il totoministri del nuovo governo: l’ipotesi è Vittorio Colao premier, titolare dell’innovazione e unico fra i tecnici ad avere un vero imprimatur draghiano, e un governo di «politici».

La Lega pretende il licenziamento della ministra dell’interno Luciana Lamorgese, il ministro Roberto Cingolani ha deluso anche i suoi mandanti M5s, solo Daniele Franco è blindato all’Economia. I partiti hanno liste lunghe di aspiranti ai dicasteri.

Ma finché Berlusconi non libera il centrodestra, la discussione neanche può iniziare. Il segretario Enrico Letta, a RadioImmagina, l’emittente del Pd, spiega di aver respinto «l’assalto al Colle» del centrodestra, d’altro canto «il nostro problema è che non basta dire di no.

Anche con il centrodestra dobbiamo individuare accordo». E in effetti il nome della presidente Maria Elisabetta Casellati e quello di Letizia Moratti sono saltati fuori ieri durante il colloquio fra Conte e Salvini. Sulla prima il leader della Lega ha ricordato che il Movimento ha già votato l’avvocata allo scranno più alto di palazzo Madama. Sulla seconda c’è un apprezzamento di Conte. Ma se «il centrodestra resterà unito», come tuona Salvini, anche i giallorossi si sono giurati «unità» al vertice di mercoledì.

E chi ha parlato negli scorsi giorni con Letta ha ricevuto rassicurazioni: se, passato l’incubo Berlusconi, il centrodestra dovesse rilanciare su nomi come quelli di Pera, Casellati o Moratti, il Pd dirà no.

E in serata dal Nazareno il concetto viene ribadito: «Non voteremo un candidato di centrodestra. Voteremo un presidente super partes, come i numeri di questo parlamento senza maggioranza impongono».

Per questo si torna a Draghi, e al piano inclinato che va verso di lui. Sarebbe la scelta migliore anche per Meloni per completare il capolavoro che le è riuscito al parlamento europeo: saltata la maggioranza Ursula, il gruppo dei conservatori Ecr ha eletto un vicepresidente e votato la nuova presidente Roberta Metsola, popolare e molto conservatrice.

Con il premier al Colle, la sua rinascita da sovranista all’opposizione a leader di governo e persino un po’ europeista sarebbe compiuta.

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